In questa intervista rilasciata a Londra Notizie 24 dopo il concerto alla Conway Hall Ethical Society di Londra, Fabrizio Paterlini racconta la sua musica multisensoriale e poetica, dall’acustica ”calda” e avvolgente.
Riverscape, la musica neoclassica e la memoria dell’acqua: parla Fabrizio Paterlini
Giovedì 9 novembre Fabrizio Paterlini è tornato alla Conway Hall Ethical Society di Londra, questa volta accompagnato dal talento eccellente degli StringsTrio, per offrire al pubblico di appassionati uno spettacolo che si può definire multisensoriale, poetico. Lo abbiamo incontrato nel backstage poco prima del concerto, tenutosi in questa venue storica, dall’acustica ”calda” e avvolgente.
Ad accoglierci per primo il suo manager, Augusto Casciani di ItaliaES, che ci ha scortati fin sopra al palco, arredato con un maestoso pianoforte a coda Bösendorfer. Fabrizio era sorridente, evidentemente immerso nel suo ”habitat”. Ci ha raccontato di lui, della sua musica e del suo ultimo progetto artistico, Riverscape, nato dalla collaborazione con la fotografa Kristel Schneider.
Riverscape è un dialogo tra la potenza immaginifica della fotografia e quella spirituale della musica, tra le memorie dell’acqua e quelle dell’anima. Un’esperienza immersiva, perpetrata attraverso il connubio di archi come andatura e pianoforte come profondità dei fiumi che parallelamente scorrevano attraverso le immagini e i filmati realizzati da Kristel Schneider, e riprodotti su grande schermo.
So che hai cominciato a suonare da giovanissimo. Mi puoi raccontare il tuo primo ricordo legato alla musica?
“Il mio primo ricordo legato alla musica è un brano che appartiene alla tradizione popolare delle mie parti – io sono mantovano – che è una specie di mazurca, un valzer diciamo, chiamato Ciribiribin! Che bel faccin. È stato tra i primi pezzi che ho imparato a suonare a due mani, quando avevo sei anni. Parallelamente, affrontai anche il primo brano ”serio’’, per così dire, che era A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum. In realtà non è affatto complesso ma rimane un pezzo incredibile, che mi ha fatto appassionare agli anni ‘60 e ‘70. Decenni che adoro, musicalmente parlando”.
Paterlini e il processo creativo: “Premo REC e aspetto ciò che l’ispirazione mi porta”
E invece il tuo processo creativo come lo descriveresti?
“Il mio processo creativo è abbastanza inspiegabile. Tanto per cominciare, io ho iniziato a scrivere musica molto tardi. Ho suonato per una vita la musica di altri. Facevo principalmente cover tipo Pink Floyd, Police, ecc. con le mie band. Ho fatto anche il cantante per un gruppo tributo metal dei Pantera, praticamente tutto il mondo dello scibile. È stato solo a trent’anni che ho iniziato a scrivere.
Come se un qualche rubinetto si fosse aperto. Non saprei spiegarlo ma ci sono stati
due eventi fondamentali: uno fu la visione del film Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet, che adoro. Lì c’è la colonna sonora Yann Tiersen e tutte le volte che la sento mi strappa il cuore. È anche grazie a quel film che ho capito in pieno la potenza del pianoforte. Poi, la mia fidanzata di allora, che adesso è mia moglie, mi regalò un libro di partiture di Einaudi. Ai tempi, parliamo del 2004, in Italia era abbastanza conosciuto, ma all’estero doveva ancora fare il botto, arrivato poi nel 2006 con l’album Divenire. In un certo senso dunque era ancora di nicchia. Aver suonato e letto quelle partiture mi ha dato un codice che ho assimilato. Se tu ascolti il mio primo album, Viaggi in aeromobile, lo percepisci che è molto legato a quei canoni.
Col tempo poi da quei canoni mi sono staccato, però, ecco, ho iniziato da lì. Adesso il mio processo creativo è il seguente: a casa mi sono fatto il mio studio di registrazione, dove ovviamente c’è il mio pianoforte. Una volta lì, accendo il computer lo metto in REC, vado al pianoforte e poi aspetto che arrivi qualcosa. Di solito è buona la prima, cioè ho raggiunto quel punto in cui accolgo questo modus dell’istantaneità, sia nel bene che nel male, prendo l’ispirazione così come viene e la pubblico com’è. Quindi il processo creativo è proprio questo: accogliere e far par parlare attraverso il pianoforte tutto quello che l’ispirazione mi porta”.
La musica che scrivi è spesso correlata al tuo mondo interiore. Quest’ultimo lavoro invece, nato dalla collaborazione con la fotografa Kristel Schneider, è più legato al mondo della natura. Mi racconti come hai coniugato il mondo della natura con quello del sentire umano?
“Innanzitutto è curioso come nasce quest’album perché cinque anni fa Kristel mi mandò un libro della sua precedente opera incentrata sugli alberi, che si chiama Variations in Trees.
Mi disse che aveva fatto questo libro ascoltando la mia musica, e ne sono uscite fuori delle opere meravigliose. È stato successivamente che mi ha chiesto di collaborare ad un livello più conscio. Mi comunicò dunque la sua idea di lavorare sul fiume e abitando io sul fiume Po da quando sono bambino, e dove oggi porto i miei figli, ho accettato con grande entusiasmo.
Ho provato a coniugare, per così dire, il mio sentire con il fiume, lasciandomi trasportare da quelli che sono per me i messaggi, i rimandi, o meglio le suggestioni che il fiume sa darmi.
Tra tutte, diciamo, io sono rapito completamente dalle memorie che si porta dietro un fiume come il Po. A me piace moltissimo la vista, la calma dell’acqua, il rumore dello sciabordare delle onde, ma mettermi davanti al corso d’acqua e immaginare le persone che hanno vissuto nei secoli passati, che hanno attraversato quel fiume, che hanno perso la vita in quel fiume, ha rappresentato la scintilla della creazione. L’ho sentita molto mia questa chiave di lettura.
E poi mi sono avvalso dell’aiuto di altri elementi, perché oggi per la prima volta a Londra suono con un trio d’archi. Li ho portati con me perché sento che il pianoforte da solo non riesce ad esprimere tutti i colori, le pennellate che ti dà invece un paesaggio così complesso come quello del fiume. Quindi è stato un lavoro molto interessante di ricerca”.
Quanto è importante per te raggiungere il pubblico?
“È fondamentale. Io sono conscio che qualcuno, per esempio, si lamenta della brevità delle mie canzoni, che sono massimo di due minuti, ma ciò che io compongo sono densi haiku musicali. D’altra parte, è uno stimolo importante sapere che qualcuno aspetta di ascoltarti perché altrimenti tu te la canteresti e suoneresti da solo in camera tua, nel tuo studio e finirebbe lì, no?
Invece, sapere che esiste un tuo pubblico è un motore importante. E come tutti noi che facciamo arte sappiamo che raggiungere più persone è un obiettivo. Oggi come oggi è un momento difficile perché c’è un bombardamento di contenuti, anche musicali, incessante. Quindi trovare uno spazio di silenzio, di raccoglimento, in cui poter portare qualcuno a sentire cosa fai tu è complicato. Però, insomma, è chiaro che l’obiettivo è quello, cioè di riuscire ad arrivare a più persone possibili”.
Se dovessi dare un consiglio ad una/un collega che persegue il sogno di poter vivere di musica, quale sarebbe, considerando un mercato così saturo e che tratta la musica come genere di consumo?
“È molto vera la parte della musica come genere di consumo, ma ancora una volta c’è del bene, e c’è del male. Spotify e altre app che mostrano un modo nuovo di usare e di consumare musica, portano cose positive perché danno a chiunque la possibilità di dire la sua, dall’altra parte però non c’è più selezione ma sovrapproduzione. Far sentire la tua voce è veramente difficile.
Dico la verità, se dovessi iniziare oggi non saprei come fare. Fortunatamente ho iniziato dieci anni fa quando c’era MySpace, e mi sono costruito la mia fanbase pezzettino per pezzettino, quando c’era ancora uno spazio. Muoversi in questo spazio ora è difficilissimo perché minimo.
Consigli da dare non ne ho, se non ribadire che la passione da sola non basta, cioè avere la passione e la musica non è sufficiente. Per me c’è un’ossessione. Io ho veramente rischiato più di una volta di andare in burnout, perché sapevo dove volevo arrivare. Avevo un obiettivo che era quello di campare di musica, e ho impiegato diversi anni a perseguire quest’obiettivo, in cui però non pensavo ad altro.
Oggi i tempi sono diversi, perché adesso non esiste più il talent scout che ti scopre. Io ho avuto modo di fare un lavoro certosino, roba da ”un fan al giorno”. E così si arriva alla piccola nicchia che consente di toglierti qualche soddisfazione, insomma di campare di musica e anche di avere una platea che ti viene a sentire, che ti dà calore. Questa è la parte più bella, cioè quella di confrontarsi col pubblico”.
Modern classical e strumentalità, e a Paterlini piace anche la multimedialità
Leggendo vari articoli su di te ho notato che moltissimi ti descrivono come ”compositore di musica classica”. Sei d’accordo con questa, chiamiamola, etichetta?
“Diciamo che la cosa è divertente perché quando ho iniziato nel 2007 col primo album Viaggi in aeromobile, la musica di pianoforte era legata, soprattutto in Italia, a due personaggi che erano Allevi e Einaudi. Quindi, quando dicevo che facevo musica con pianoforte, e mi chiedevano – Eh. ma tipo? – Io rispondevo – Tipo Einaudi. –
Oggi le cose sono cambiate e in realtà chi dice musica classica è perché un po’ pigro, non vuole andare più a fondo. In generale, si può dire che la musica neoclassica, o modern classical come la chiamano adesso, comincia ad avere una sua struttura e una sua identità ben definite, che si dividono tra l’elettronica nordica e il calore nostro, cioè del Mediterraneo.
Però comincia ad esserci una matrice di questo genere musicale che è legata alla strumentalità, infatti non c’è voce, non c’è canto, ma ci sono delle progressioni armoniche classicheggianti. Però ha un’immediatezza che la musica classica non ha, tranne qualche rara eccezione.
E quindi questa è la miscela magica secondo me che fa si che la gente sia rapita da questa musica, che anche su di me esercita molto fascino”.
Pensi di lavorare ancora su altri progetti che uniscano la musica ad altri linguaggi artistici?
“Sì, allora adesso ho iniziato a lavorare sull’audiovisivo. Ho fatto qualcosa in passato, però non mi ci sono mai messo seriamente. Ora che ho del tempo, mi piacerebbe impiegarlo nel lavorare maggiormente sul mondo delle sincronizzazioni, quindi sia sul materiale passato che quello futuro. Mi piacerebbe davvero tanto. Anche scrivere sul concetto, scrivere come ha fatto Kristel con le foto, magari per delle immagini in movimento, che siano un film, un corto, un documentario. Insomma, penso che sia nelle le mie corde, e quindi spero di riuscire a farlo”.