Ho avuto la fortuna d’incontrare una donna, una fotografa, che ha letteralmente trasformato la sua vita dandole la forma della personale missione artistica e umana.
Il suo lavoro l’ha portata nei sobborghi di Kuala Lumpur, nei Balcani, e nelle Isole Canarie
Si chiama Chiara Fabbro ed è una fotografa documentarista italiana residente a Londra, specializzata in diritti umani e migrazioni. Il suo lavoro l’ha portata nei sobborghi di Kuala Lumpur, in Malesia, dove chi fugge da conflitti e persecuzioni vive in un limbo senza poter ottenere lo status di rifugiato; nei palazzi abbandonati dei Balcani, dove uomini, donne e bambini migranti restano bloccati durante il loro viaggio verso l’Europa; e sulle spiagge delle Isole Canarie, meta di migliaia di persone che affrontano pericolosi viaggi su imbarcazioni di (s)fortuna, dalla costa dell’Africa occidentale.
Ciao Chiara, grazie per essere qui con me e soprattutto per il contributo prezioso che dai alla libera informazione. Partendo proprio da questo, puoi raccontarmi com’è nato l’amore per la fotografia documentaristica?
La passione per la fotografia di reportage si è sviluppata insieme all’interesse per i temi legati alla migrazione e ai diritti umani, e alla volontà di documentare quello di cui ero testimone. È nato tutto da una serie di esperienze di volontariato, la prima delle quali proprio a Londra, dove vivo, con una charity che supporta i richiedenti asilo, e con cui collaboro ormai da diversi anni come interprete inglese-francese e intervistatrice. Sono seguite altre esperienze più brevi, a Calais, in Francia, con una ONG che offre supporto alle persone migranti che si trovano lì con la speranza di raggiungere il Regno Unito e a Lesbo, in Grecia, in emergency response per le persone che allora arrivavano con i gommoni dalla Turchia.
Grazie a queste esperienze ho avuto modo di osservare da vicino le conseguenze della gestione delle frontiere e delle politiche di accoglienza. Mi sono interessata sempre di più alle storie delle persone che affrontano questi viaggi così difficili e ho deciso di combinare questo interesse con la mia passione per la fotografia per provare a raccontarle, quelle storie, mettendole al centro. Credo che sia molto più difficile accettare di trattare degli esseri umani come “altri” e come un problema, nel momento in cui ci confrontiamo con l’umanità delle loro storie individuali.
Kuala Lumpur
Puoi condividere alcune esperienze dei tuoi lavori in diverse località come i sobborghi di Kuala Lumpur, i Balcani e le isole Canarie? Quali sfide hai incontrato e come hanno plasmato la tua prospettiva sulle questioni legate alla migrazione?
A Kuala Lumpur ho collaborato con una piccola ONG che supporta i senzatetto e i rifugiati. Questi ultimi si trovano in una situazione molto difficile poiché la Malesia non ha aderito alla convenzione sui rifugiati. Non possono lavorare se non in modo irregolare, con remunerazioni molto basse e senza protezioni, e sono suscettibili all’arresto e al rimpatrio. Ho conosciuto in particolare tre giovanissimi fratelli afghani con cui si è creato un rapporto molto stretto che dopo diversi anni in limbo sono finalmente stati accolti da un paese terzo firmatario della Convenzione, dove i loro diritti sono tutelati.
I Balcani
Dalla fine del 2020 ho iniziato a concentrarmi sulla cosiddetta rotta balcanica. Essendo friulana e avendo vissuto per diversi anni a Trieste lo sento come un tema che mi riguarda da vicino. Se ne parla molto meno rispetto alla rotta del Mediterraneo Centrale, ed è importante creare consapevolezza su chi arriva dai confini orientali. Persone che vengono da paesi come Afghanistan, Pakistan, Siria o Iran e vogliono presentare domanda d’asilo in Europa non hanno altra scelta che pericolosi attraversamenti irregolari dei confini. Nel 2021 ho passato due mesi in Bosnia-Erzegovina ed è stata un’esperienza molto intensa per le storie di chi ho incontrato e per la difficili condizioni in cui vivevano, in edifici abbandonati o accampamenti di fortuna durante il rigidissimo inverno balcanico, sospesi in un limbo che può durare mesi a causa dei ripetuti respingimenti alle frontiere, spesso violenti. Il trauma di queste esperienze pesa inevitabilmente sulla salute mentale, spesso aggiungendosi a un carico già esistente.
Isole Canarie
Alle isole Canarie sono stata due mesi per documentare l’arrivo di persone via mare dalle coste dell’Africa Occidentale, attraverso la cosiddetta rotta atlantica, per conoscere più da vicino la situazione in un altro paese del Mediterraneo. I dati suggeriscono che si tratti della rotta di migrazione in assoluto più pericolosa, in termini percentuali di vittime rispetto alle partenze. La distanza percorsa può raggiungere anche i 2000 km, in un’area di oceano molto vasta, che complica molto le operazioni di soccorso. Sono frequenti i problemi al motore, così come il disorientamento, e le persone a bordo possono restare alla deriva per giorni, se non settimane, durante le quali le scorte di acqua, cibo e carburante spesso finiscono. Alcune imbarcazioni sono state rinvenute persino ai Caraibi – a bordo solo i resti di chi era partito. I racconti di chi è sopravvissuto alle traversate più tragiche parlano dei corpi buttati a mare e sono estremamente drammatici. Volevo provare a capire le motivazioni di chi si imbarca in un viaggio così pericoloso e raccontare le loro storie.
La tua fotografia è stata riconosciuta con prestigiosi premi come il Portrait of Humanity e il Photography 4 Humanity Global Prize. Come pensi che il tuo lavoro contribuisca a sensibilizzare e promuovere il cambiamento riguardo alle questioni dei diritti umani e della migrazione?
Non ho la presunzione di fare una grossa differenza, si tratta di un tema complesso e su scala globale, affrontato da molti fotografi bravissimi e con più esperienza di me. Però quando capita che qualcuno che si è imbattuto nel mio lavoro mi contatti per ringraziarmi perché ha imparato qualcosa o perché le foto lo hanno colpito mi dico che forse sto andando nella direzione giusta.
Le persone che ho fotografato hanno lasciato alle spalle guerre, persecuzioni e privazioni
Le persone che ho fotografato hanno lasciato alle spalle guerre, persecuzioni e privazioni, sono alla ricerca di una vita più dignitosa. Si tende spesso a semplificare la questione, con etichette sulla base di categorie a compartimenti stagni: da un lato i rifugiati considerati legittimi, e dall’altro i migranti economici. La realtà però è fatta quasi sempre di sfumature e i motivi che spingono la gente a lasciare la propria casa e partire per un viaggio così difficile sono spesso un insieme complesso, non riducibile a questa semplificazione. La mia speranza è di avvicinare alle storie di coloro che arrivano alle porte d’Europa, ma anche di trasmetterne un piccolo frammento di complessità, per contrastare una narrazione semplificata e fuorviante.
Mi approccio innanzitutto da essere umano a essere umano
Potresti approfondire le considerazioni etiche coinvolte nella documentazione di questioni sensibili come la migrazione e gli abusi dei diritti umani? Come assicuri la dignità e la privacy delle persone che fotografi?
Il rispetto della persona e la connessione a livello umano sono fondamentali per me. Moltissime delle persone che ho incontrato hanno lasciato un segno e abbiamo mantenuto i contatti nel tempo. Ovviamente tutto diventa più delicato quando si tratta di persone in situazioni di vulnerabilità, con storie spesso drammatiche alle spalle. Mi approccio innanzitutto da essere umano a essere umano, cercando di non essere invadente e di creare quando possibile un rapporto di fiducia e rispetto reciproci. In questo mi aiutano molto il fatto di lavorare da sola e credo anche di essere donna, perché mi offrono quasi sempre il privilegio di non essere percepita come una “minaccia”, dandomi accesso a spazi più intimi. La macchina fotografica di solito compare dopo, spiegando qual è lo scopo del mio lavoro e assicurandomi che le persone siano consapevoli che le foto potrebbero apparire online. La maggior parte di coloro che ho conosciuto è stato d’accordo nel farsi fotografare. Chi preferiva non essere fotografato o solo in modo da non essere riconoscibile, di solito mi diceva di non voler essere visto in condizioni così poco dignitose. Sono molto grata a chi ha scelto di fidarsi di me e sento una grossa responsabilità nel condividere le loro storie, cosa che cerco di fare nel modo più rispettoso possibile.
C’è in entrambi i paesi una tendenza a mettere l’enfasi sulla sicurezza dei confini, che diventa prioritaria rispetto ai diritti umani
Essendo una fotografa documentarista italiana con sede a Londra, come navighi tra i paesaggi culturali e politici sia in Italia che nel Regno Unito in relazione alle questioni migratorie? Noti differenze nelle attitudini o nelle politiche verso i migranti tra i due paesi?
Mi sembra che siano molte le somiglianze su questo tema, spesso usato come capro espiatorio per i problemi interni del paese. Il piano di trasferire i richiedenti asilo in Rwanda del Governo britannico di Rishi Sunak e quello analogo per l’Albania del Governo Meloni in Italia sono entrambi il frutto di un approccio che tratta esseri umani come pacchi non desiderati. C’è in entrambi i paesi una tendenza a mettere l’enfasi sulla sicurezza dei confini, che diventa prioritaria rispetto ai diritti umani di chi arriva, e poca attenzione allo sviluppo di adeguati programmi di accoglienza che favoriscano l’integrazione e che sarebbero nell’interesse di tutti.
Guardando avanti, quali progetti o iniziative future hai in programma?
Le idee sono molte ma non ho ancora programmato nulla di preciso quindi non mi sbilancio. Però sono molto felice di condividere l’inaugurazione giovedì 20 giugno della mia mostra “Along the border” incentrata sulla rotta balcanica, con fotografie e testimonianze da Bosnia-Erzegovina, Serbia e Trieste, commissionata dal Comune di Ravenna nel contesto del Festival delle Culture 2024.