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Antonio Morabito: un’estate di successi e riconoscimenti tra Reggio Calabria e Londra

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Morabito alla premiazione di Reggio Calabria (copyright Antonio Morabito)
Morabito alla premiazione di Reggio Calabria (copyright Antonio Morabito)

Un’estate densa di appuntamenti di rilievo quella del Maestro Antonio Morabito, pianista e concertista italiano based in London, città in cui alterna l’attività concertistica a quella didattica (insegna al Royal College of Music, dove lui stesso si è perfezionato; è professore di Pianoforte presso il Blackheath Conservatoire alla Cardinal Vaughan Memorial School e direttore del coro presso la St. Augustin Church in Hammersmith).

CHOIN di Mattia Sedda: il clown, il buffone e il comico dell’arte

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Mattia Sedda al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Spoiler alert!

Mattia Sedda è un artista del corpo, dell’azione scenica.

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Nei primi cinque minuti del suo spettacolo CHOIN ha interpretato, attraverso una magnifica gestualità corporea, il pezzo che per noi millennials ha rappresentato il confine tra l’età adolescenziale e quella adulta: la sigla What’s My Destiny Dragon Ball. L’ha cantata malissimo (e in lingua italiana), esattamente come la state cantando (a mente o a voce alta) voi lettori. “Io so che tu lo sai”.

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Lo ha fatto davanti a un eterogeneo pubblico, di cui metà non essendo italiano, non mangiando italiano, non parlando italiano, e non vivendo italiano non aveva la minima idea di quello che stava accadendo. Eppure tutti erano completamente immersi in quella esilarante gag. Come è possibile?

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Il connubio perfetto tra il buffone medievale e il comico dell’Arte

È possibile perché Mattia Sedda reincarna in chiave contemporanea il connubio perfetto tra il buffone medievale e il comico dell’Arte: attraverso le sue esecuzioni corporee, assolutamente non realistiche ma “reali” e mai prevedibili, il clown Sedda si allontana dalla concezione testocentrica e letteraria del teatro per ritrovare quella legata alla presenza più che alla rappresentazione. Niente nello spettacolo di Sedda, dal T-Rex attention-seeker al camerata fascista che vuole conquistare Leicester Square a suon di pizza e mozzarella rigorosamente I-T-A-L-I-A-N-E sembra scritto o premeditato, nonostante anche la gag più surreale risulti credibile. Questa è la chiave dello spettacolo di Mattia Sedda, e in generale, del comico Mattia Sedda, assieme al bilanciato mix di semplicità, ritmo e precisione.

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Essere un clown è una cosa assai seria

La corporeità provocatoria e grottesca di Mattia si intervalla a dei movimenti gentili, investiti di una purezza che suscita ilarità ma anche una certa nostalgia del fare fanciullesco.

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Da bambini, infatti, la massima potenzialità del nostro corpo raggiunge l’apice, essendo scevra da controllo e inibizione. Siamo maldestramente spontanei, più “veri del vero”, trasciniamo per mano la realtà e la facciamo mescolare con il nostro immaginario, senza darle via di scampo. Da adulti questo superpotere viene perso, non alimentato, abbandonato. Mattia invece se n’è preso cura evidentemente allenandosi con grande costanza. Essere un clown, e saper far ridere è una cosa assai seria. Perché Mattia Sedda-buffone ci fa ridere dall’inizio alla fine, ma Mattia Sedda-uomo apre qua e là delle piccole crepe in cui si assume la responsabilità di farci anche pensare che essere migranti, “fittare” una società marcia, non riconoscersi più neanche nei nostri gesti non è poi tanto “normale”.

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

L’umiltà fuori dal personaggio

Post-spettacolo sono andata a parlare con Mattia e c’è stato un particolare che mi ha colpita: la sua umiltà fuori dal personaggio. Come se dopo la performance si fosse calato nei panni del buon oste, assicurandosi che tutto proseguisse per il meglio. La stessa umiltà che ho ritrovato nell’unica battuta pronunciata dalla versione femminile di Monsieur Hulot, l’attrice Malin Sofia Kvist che ha aperto il numero di Mattia Sedda: “Sono svedese” – ovvero – osservando i miei gesti naturali e innaturali, la mia muscolatura perfetta al servizio di azioni del tutto sconclusionate vi sarete chiesti chi io sia e da dove io venga. Ecco, lei è svedese.

Malin Sofia Kvist al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Malin Sofia Kvist al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Un’ouverture che ha funzionato come un trailer pre-film nella sala cinematografica. Lo guardi con curiosità mentre aspetti lo spettacolo da te accuratamente selezionato. CHOIN!

Andatelo a vedere allEdinburgh Fringe 2024

Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)
Mattia Sedda in CHOIN al Phoenix Arts Club (photo credits Luigi Russo)

Il Pomo d’Oro e la European Union Youth Orchestra all’Edinburgh International Festival 2024

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2-25AUG_Edinburgh_Festival poster
2-25AUG_Edinburgh_Festival poster

Grazie alla collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura e del Consolato Generale d’Italia a Edimburgo con il prestigioso Edinburgh International Festival (dal 2 al 25 agosto), quest’anno prende vita un evento  imperdibile per gli amanti della musica barocca e sinfonica. Il celebre ensemble italiano di strumenti d’epoca, Il Pomo d’Oro, accompagnato dal controtenore Jakub Józef Orliński, e la European Union Youth Orchestra diretta dal maestro Gianandrea Noseda, si esibiranno in concerti indimenticabili.

Un Viaggio musicale nel XVII Secolo

L’esibizione di Il Pomo d’Oro promette un viaggio attraverso le grandi corti dell’Italia del XVII secolo, offrendo un programma che abbraccia i capolavori del primo Barocco. La critica musicale, tra cui la prestigiosa rivista Gramophone, ha descritto l’ensemble come “celestiale”, un riconoscimento che testimonia il prestigio delle loro interpretazioni.

Il programma del concerto

Il concerto include brani tratti dal recente album “Beyond”, con una selezione di canzoni, arie e numeri strumentali che si distinguono in raffinatezza. Tra gli autori presenti, spicca Claudio Monteverdi, considerato il “padre dell’opera”, insieme al suo allievo Francesco Cavalli. Non mancano le canzoni d’amore di Girolamo Frescobaldi, Francesco Cavalli e Barbara Strozzi. Inoltre, il pubblico avrà l’opportunità di scoprire pregevoli esempi vocali e strumentali meno conosciuti, tra cui tre diverse arie d’opera del compositore napoletano Giovanni Cesare Netti.

I virtuosismi degli strumentisti

Oltre alle esibizioni vocali, gli strumentisti de Il Pomo d’Oro avranno l’opportunità di mettere in mostra le loro abilità in pezzi di compositori come Biagio Marini, Johann Caspar Kerll, Carlo Pallavicino e il principale compositore barocco polacco Adam Jarzębski.

L’esibizione sarà interamente cantata in italiano, con sopratitoli in inglese, per garantire la massima comprensione e apprezzamento da parte del pubblico internazionale.

European Union Youth Orchestra e il maestro Gianandrea Noseda

Il festival si arricchisce ulteriormente con l’esibizione della European Union Youth Orchestra, diretta dal maestro Gianandrea Noseda, e il violoncellista Nicolas Altstaedt. Il programma prevede l’esecuzione di due pezzi: Fate Now Conquers del compositore americano Carlos Simon e il celebre Don Quixote di Richard Strauss.

Il pomo d'oro e Jakub Jozef Orlinkski (copyright EIF)
Il pomo d’oro e Jakub Jozef Orlinkski (copyright EIF)

Un’avventura musicale con Don Chisciotte

Il Don Quixote di Strauss, composto nel 1897, è un’opera sinfonica che racconta le avventure del cavaliere errante di La Mancha. Il violoncello interpreta il ruolo del protagonista, mentre la viola, la tuba tenore e il clarinetto basso rappresentano il suo fedele scudiero. La composizione segue le peripezie di Don Chisciotte e del suo compagno di avventure, Sancho Panza, offrendo una narrazione musicale ricca di emozioni e contrasti.

Il Suono multigenere di Carlos Simon

In contrasto, Fate Now Conquers di Carlos Simon offre un’esperienza sonora multigenere che invita il pubblico a lasciarsi trasportare dalla sua complessità e dalle sue sfumature contemporanee.

Durante questo concerto, gli spettatori sono invitati a rilassarsi su comodi beanbag e immergersi nelle avventure musicali di Don Chisciotte, accompagnate dal suono innovativo di Carlos Simon.

European Union Youth Orchestra diretta dal maestro Gianandrea Noseda (copyright EIF)
European Union Youth Orchestra diretta dal maestro Gianandrea Noseda (copyright EIF)

Informazioni per i biglietti

Per chi desidera vivere queste straordinarie esperienze musicali, i biglietti sono disponibili sul sito ufficiale del festival: www.eif.co.uk

Organizzazione e collaborazioni

Gli eventi sono organizzati dall’Edinburgh International Festival, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura, il Consolato Generale d’Italia e il Consolato Generale della Repubblica di Polonia. Queste istituzioni lavorano insieme per promuovere la cultura e la musica italiana e polacca, creando una sinergia che arricchisce il panorama culturale internazionale.

Non perdete l’occasione di assistere a questi concerti straordinari, che celebrano la bellezza e l’arte della musica barocca e sinfonica in un viaggio musicale attraverso il tempo e le culture.

Simone Giampaolo, da Chiasso a Bournemouth per sfondare nei cartoon

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Simone Giampaolo al lavoro (photo credits S. Giampaolo).
Simone Giampaolo al lavoro (photo credits S. Giampaolo).

Italians in London: intervista a tutto tondo a Simone Giampaolo, il cartoonist di successo che ci porta nel mondo delle serie animate più famose.

Nato nel 1989, laureato nel 2013 in Computer Animation Art & Design presso il National Centre for Computer Animation di Bournemouth, dal 2014 lavora a Londra nel settore dell’animazione. Nel suo portfolio i nomi che tutti coloro che fanno questo mestiere sognano: Sky, Netflix, Google, Cartoon Network, Disney, Lego, Nickelodeon, Marvel, BBC solo per citarne alcuni.

Simone Giampaolo, regista italiano based in London, è l’esempio di quanto si possa restare semplici pur avendo contatto quotidiano con case di produzione e clienti tra i più importanti al mondo. Anche al Bafta se ne sono accorti, e pochi mesi fa l’hanno accolto tra i componenti della prestigiosa Academy.

Simone Giampaolo, da Chiasso a Bournemouth per sfondare nei cartoon

Simone Giampaolo (photo credits S. Giampaolo).
Simone Giampaolo (photo credits S. Giampaolo).

Chi è Simone Giampaolo? Come ti descriveresti a chi ancora non ti conosce?

“Sono un regista di cartoni animati, che è un po’ atipica come posizione. Di solito quando si dice regista si pensa ai film di live action o di serie tv, eppure anche i cartoni animati hanno bisogno di questa figura del regista che amministra e decide gli shot, dice agli animatori cosa fare, dice ai concept artist cosa fare, decide il design dei personaggi.

Io faccio questo, a Londra, a livello professionale, ormai da dieci anni. Sono di famiglia italiana, però sono nato e cresciuto proprio al confine tra l’Italia e la Svizzera, a Chiasso, nel Canton Ticino.

Mia mamma è siciliana, mio papà molisano, entrambi figli di emigrati, si sono incontrati in Svizzera e io sono nato e cresciuto proprio sul confine tra i due Paesi.

La Svizzera è molto bella però io sono sempre stato influenzato più dalla cultura italiana essendo così vicino: noi guardavamo sempre la televisione italiana, passavamo spesso del tempo a Como o a Milano.

Sono cresciuto un po’ a cavallo tra queste due culture. Poi verso i 22-23 anni, nel 2010, ho deciso di venire in Inghilterra, ho studiato tre anni presso la Bournemouth University.

Bournemouth è una cittadina del sud dell’Inghilterra, sulla costa, e lì mi sono specializzato in animazione digitale. Da lì è cominciato il mio percorso a Londra, come animatore junior poi pian piano sono diventato regista e adesso mi occupo soprattutto di serie tv per bambini.

Ne ho fatta una per Sky Kids, una per Netflix e adesso ne sto preparando una per Nickelodeon.”

Parlami un po’ di queste produzioni.

Un fotogramma di Bad Dinosaurs (photo credits Netflix).
Un fotogramma di Bad Dinosaurs (photo credits Netflix).

“Quella per Netflix è stata la più popolare: è una serie incentrata su una famiglia di tirannosauri che si chiama Bad Dinosaurs ed è uscita sei mesi fa. E’ stata molto apprezzata da famiglie e bambini.

Ho anche fatto una serie per Sky Kids, Obki, che però è stata mandata in onda solo in Inghilterra e in America. E adesso ne sto preparando una che si chiama Stan & Gran che uscirà l’anno prossimo e, se tutto va bene, dovrebbe essere tradotta in spagnolo, francese e italiano, quindi dovrebbe arrivare a un certo punto anche sulla Rai, con la versione italiana, anche se inizialmente dovrebbe andare in onda in Inghilterra.”

Simone Giampaolo, un regista italiano nella Bafta Academy

Only a child, il cartoon che ha ottenuto una Bafta Nomination (photo credits S. Giampaolo).
Only a child, il cartoon che ha ottenuto una Bafta Nomination (photo credits S. Giampaolo).

Dal Maggio 2024 sei diventato membro del Bafta. Com’è andata?

“Il Bafta è come l’Academy degli Oscar. Bisogna fare qualcosa od ottenere un certo riconoscimento perché tu possa essere ammesso a far parte di questa giuria, che poi ti permette di accedere a determinati eventi o anche di votare per i Bafta inglesi.

Io ho avuto questa opportunità per due ragioni: la prima è perché il mio cortometraggio indipendente Only a Child ha vinto alcuni festival riconosciuti dal Bafta.

La seconda ragione è che lo stesso cortometraggio ha ottenuto una Bafta nomination nel 2022. Anche se io non sono britannico, non ho ancora la Citizenship, loro hanno valutato il mio lavoro, hanno riconosciuto il mio contributo degli ultimi anni all’industria londinese e mi hanno conferito questo riconoscimento.

La maggior parte dei riconoscimenti che ho avuto sono dovuti a questo mio cortometraggio, entrato anche nella Oscar Shortlist, i dieci cortometraggi di animazione in lista per gli Oscar, sempre nel 2022.

Questo ha dato tanta visibilità al prodotto, che è stato molto apprezzato.”

Lavorare con e lavorare per, a Londra si può

Sul tuo web profile hai fatto una suddivisione: Clients I worked for e Studios I worked with. Che differenza c’è per SImone Giampaolo tra lavorare per qualcuno e lavorare con qualcuno, nel tuo caso?

“Questa è una bella domanda, perché spesso non si fa distinzione oppure si sorvola su questa differenza. Però io nel mio portfolio ho lavori per un sacco di clienti, che siano Google, Disney, Cartoon Network, Warner Bros. Ma questo non vuol dire che io mi sia spostato per andare a lavorare in prima persona con ciascuno di loro.

E’ questa la differenza. Io lavoro spesso con studi di Londra o studi inglesi, come il famoso Aardman (che ha prodotto Wallace & Gromit o Galline in Fuga), Jellyfish Pictures o Blue Zoo.

Questi studi di base a Londra o comunque in Inghilterra lavorano per grandi clienti internazionali. Loro quindi prendono le commissioni, i lavori, e io vengo chiamato come regista o come creativo per lavorare a questi progetti.

Sta lì la differenza, io lavoro con studi di base a Londra per clienti che possono essere magari in Cina, a Los Angeles, in Canada. In questo modo posso accedere a progetti molto interessanti, senza che io mi debba spostare fisicamente.”

Il lavoro che stai preparando adesso, Stan & Gran, di cosa parla? Che tipo di storia è?

“E’ una serie che parla di Stanley (Stan) e di sua nonna (Gran), che esplorano la costa della Cornovaglia, scoprendo gli animali, le creature che ci vivono.

E’ una serie molto ambientalista, ecologista, per insegnare ai bambini ad apprezzare di più i boschi, le coste, le spiagge. La serie è una produzione di Jellyfish Pictures, qui a Londra.”

Giampaolo: Il cartoon è cambiato, e ci sono i pro e i contro

Secondo te come è cambiato il modo di fare cartoni animati da quando eravamo bambini noi ad oggi? Cosa c’è di diverso per i bambini di oggi, che noi non avevamo, ad esempio la coscienza ambientalista di cui abbiamo appena parlato?

“Alcuni cartoni ambientalisti c’erano già, quando eravamo piccoli, però ovviamente erano molti di meno. Io ricordo Capitan Planet o la foca Sibert, soprattutto il primo che era un supereroe che salva il pianeta dai cattivi che vogliono portare pollution, inquinamento.

Adesso invece i canali tv sono molto impegnati e molto aperti ad avere contenuto ecologista, educativo, spingendo i bambini ad apprezzare di più la natura.

Questa è una cosa assolutamente positiva. E’ positivo che i canali tv o gli streamers come Netflix o Disney+ puntino a queste cose, però ci sono i pro e ci sono i contro.

I contro sono invece piuttosto legati allo humor, con il politicamente corretto e un po’ di perbenismo che c’è oggigiorno, l’attenzione dei canali televisivi a non offendere nessuno. Secondo me questa cosa ha avuto un effetto negativo un po’ sul tipo di humor che si può fare in televisione.

Ti faccio un esempio: i bellissimi cartoni che si guardavano venti-trent’anni fa, per esempio Tom e Jerry. Io sono cresciuto guardando Tom e Jerry dove c’era “violenza cartoon” che faceva ridere un sacco, si tiravano le martellate, si prendevano a padellate, Tom veniva chiuso nel frigorifero. Sono cose che oggi non si possono fare su tanti canali, come la BBC o Nickelodeon o Disney+ perché i canali sono ossessionati dalla paura che i bambini possano imitare e possano creare incidenti, che i genitori si possano ribellare contro i canali stessi.

Sono terribilmente spaventati dalla possibilità di ricevere critiche negative, quindi tutto il senso di humor deve essere molto ovattato, gentile, non troppo violento, esuberante o con gag che possano offendere una fetta della popolazione.

Da questo punto di vista io preferivo com’erano i cartoni di un tempo, la “violenza cartoon” era molto divertente, invece oggigiorno è veramente raro poter produrre questo tipo di contenuti per i bambini. E questo mi dispiace un po’.”

Ma anche perché se si cresce un bambino in maniera intelligente e il bambino vede il gatto Tom nel frigorifero ovviamente capisce da solo che è una cosa che normalmente non si fa, bensì appartiene alla storia di quel cartone animato. O no?

“Secondo me è puramente un lavarsi la coscienza da parte dei canali cosicché loro non possano essere additati in qualche modo.

Se ci pensi, questo perbenismo non ha alcun senso, perché gli stessi bambini a cui fai vedere il contenuto gentile, ovattato, poi sono gli stessi bambini che giocano con la Playstation 5 a Call of Duty e uccidono migliaia di soldati.

Quindi è molto ipocrita, perché comunque i bambini su You Tube o su altri canali o sui videogames trovano la violenza, quindi secondo me è solo un modo per pulirsi la coscienza.”

Il politically correct rischia di schiacciare la creatività

E’ come quando all’interno di gruppi (soprattutto di ragazzi) protagonisti delle serie tv, animate e non, si vedono sempre più spesso uno o più protagonisti appartenenti alle cosiddette minoranze sociali.

“Hai perfettamente ragione, c’è questo tentativo di dare spazio alla diversity, però facendo così si finisce per fare tutti la stessa cosa. C’è sempre il bambino di colore, o il bambino in carrozzella, e questo succede in molte serie tv.

Un fotogramma di Stan & Gran (photo credits Jellyfish Pictures).
Un fotogramma di Stan & Gran (photo credits Jellyfish Pictures).

Anche in Stan & Gran, malgrado l’ambientazione di questa serie sia in Cornovaglia, abbiamo dovuto aggiungere personaggi di determinate etnie, proprio per far contento il canale tv.

E questa è la cosa che da un lato capisco, ma che dall’altro lato penso sia un po’ ipocrita, che serve solamente ad apparire in un certo modo.

Da una parte secondo me c’è molta più presa di coscienza sull’importanza di accentuare l’ecologia, dall’altra c’è questo politically correct che secondo me sta un po’ danneggiando il contenuto per bambini. I creatori finiscono per fare delle cose che magari non sono necessarie per la storia ma che vengono imposte.”

Ancora oggi ce l’hai un cartone animato preferito, che ti piace guardare? Qual è il cartone animato della tua vita?

“Un cartone che continuo a guardare o a cui continuo a ripensare è Spirit Cavallo Selvaggio della Dreamworks. Più ci penso e più credo che quel tipo di film non venga più prodotto. Era un film molto romantico, in cui il personaggio non parlava, pensava soltanto, e che trattava dello sterminio degli indiani in Nord America in maniera molto accessibile, senza mostrare violenza spietata, parlava di temi molto forti e la colonna sonora era fantastica, composta da Hans Zimmer e Bryan Adams.

Ogni volta che penso a quel film mi viene quasi da piangere. Uno di quei film che non dice in maniera esplicita alle persone “ehi, dobbiamo essere ecologisti e dobbiamo riciclare, dobbiamo impegnarci a rispettare la natura” però te lo insegna.

Io ho imparato tantissimo guardando quel tipo di film. Mi piacerebbe un giorno fare la regia di un lungometraggio del genere, che possa veramente far commuovere sia le famiglie che i bambini.”

Perché parlare ai bambini è una delle cose più difficili al mondo. E per riuscirci, bisogna essere onesti e coerenti. Ma soprattutto puri.

”How to kill a chicken”: la dark comedy sulla violenza di genere di Giulietta (Gigi) Tisminetzky

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Giulietta (Gigi) Tisminetzky, How to Kill a Chicken (photo credits Leonardo Camisani Calzolari)
Giulietta (Gigi) Tisminetzky, How to Kill a Chicken (photo credits Leonardo Camisani Calzolari)

Ho conosciuto Giulietta (Gigi) Tisminetzky all’ultimo “ciak” dell’evento 3,2,1 Action! Era parte del panel di professionisti. Quando l’ho vista afferrare il microfono e prendere parola, ho pensato: “Ah vedi, è Clementine Kruczynski (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) nel corpo di Faye Dunaway“. Una bomba ad orologeria. Clementine però andava e veniva. Si alternavano momenti di genuina vivacità quando raccontava dell’esperienza sui set, in special modo l’entusiasmo nel descrivere il lavoro con Paola Cortellesi; ed altri momenti più Kruczynski in fase di rimozione, più introspettivi.

L’intelligenza emotiva di Gigi Tisminetzky

Quando ci siamo incontrate per l’intervista, abbiamo passato un’ora abbondante a parlare di noi, dell’essere donne, migranti, innamorate del teatro, dei mille volti di Londra, dei sacrifici che fai pur di inseguire una libellula sul prato, di quanto ci sentiamo schiave di un certo retaggio culturale che a volte ci costringe a dire sì, che ci fa sentire colpevoli. In quest’ora ho capito che Gigi ha un’intelligenza emotiva talmente profonda da essere assolutamente in grado di parlare per molte di noi. Di noi donne, ovviamente. E non è un caso che il feedback post visione del suo spettacolo How to kill a chicken costantemente ricevuto da Gigi sia stato: “Stai parlando di me”, e fa male.

Giulietta (Gigi) Tisminetzky di How to Kill a Chicken (photo credits Stewart Bywater)
Giulietta (Gigi) Tisminetzky, How to Kill a Chicken (photo credits Stewart Bywater)

Chi scrive ha subito violenza, come molte, troppe donne l’hanno subita e continuano a subirla. Io personalmente lo spettacolo How to kill a chicken non l’ho visto, ma supporto il coraggio, la responsabilità intellettuale e artistica di Gigi Tisminetzky, promettendole di recuperarlo appena tornerà a Londra dal Fringe Festival.

Gigi, grazie per quest’incontro. Comincio col chiederti: perché i solo show?

Forse il primo one-woman show che ho visto e che mi ha davvero colpita è stato Girls and Boys di Dennis Kelly. Ricordo di essere uscita in lacrime dal teatro, colpita dalla potenza di una donna da sola sul palco. L’attrice era bravissima, sottile, raffinata, ma con una potenza incredibile, un talento che rifletteva anche la bellezza della scrittura di Kelly. Tuttavia, l’idea di fare un one-woman show non mi piaceva. Inizialmente, credo fosse per timidezza o insicurezza, non pensavo di esserne capace. Invece…

“Not every man”

Il tuo spettacolo sta avendo un forte impatto sul pubblico. Quali sono state alcune delle reazioni più sorprendenti?

Uomini e donne hanno reazioni molto diverse al mio spettacolo. Le donne escono distrutte, molte mi hanno detto: “È la mia storia, conosco bene quella situazione”. Ho avuto persone che mi hanno scritto dicendo che sono dovute andare a casa perché era troppo da metabolizzare per loro. Sto cercando di creare un sistema di supporto per il pubblico a Edimburgo, parlando con una terapeuta per lasciare almeno un numero di contatto per chi esce scosso dallo spettacolo.

Alla fine dico sempre che questa non è solo la mia storia, ma quella di tante donne. Per gli uomini, invece, vedo reazioni diverse. Alcuni capiscono il dolore, altri, anche se intelligenti, restano un po’ spiazzati. C’è questo senso di distacco, che spesso emerge quando si parla di femminicidio e violenza contro le donne. È una sorta di deresponsabilizzazione: “Not every man”.

How to kill a chiken

Il tuo spettacolo è ambientato in Costa Rica. Puoi parlarci della struttura e dei vari sotto-temi?

Sì, lo spettacolo è ambientato in Costa Rica e si sviluppa attraverso tre momenti di intimità con uomini. Il primo incontro è consensuale e bellissimo. La protagonista si sente libera per la prima volta, esplora il mondo con un senso di libertà che con le mie amiche chiamiamo “Hot Girl Summer”. Questo è il primo incontro.

Il secondo incontro è più complesso. Lei non è convinta, ma alla fine acconsente. È un momento ambiguo e sottile, dove il potere dell’uomo e la sottomissione della donna sono in gioco. Questo è forse il momento più affascinante dello spettacolo.

Infine, l’ultimo incontro è più violento e chiaro nelle sue implicazioni. È qui che si superano i confini, e credo che gli uomini spesso non lo registrino perché vivono l’altra parte della storia.

Ho deciso di smettere e raccontare la verità

Da dove è nata l’idea di questo spettacolo?

L’idea è nata da una mia esperienza personale in una vacanza andata male. Al ritorno, raccontavo aneddoti delle mie avventure amorose in modo istrionico, sempre cercando di far ridere. Ma a un certo punto, mi sono resa conto che stavo raccontando una storia che mi aveva ferita, regalando un humor a destra e a manca, senza soppesare il danno che mi stavo autoinfliggendo. Ho deciso di smettere e raccontare la verità.

Ho sempre scritto molto, ma la paura e la famosa sindrome dell’impostore mi hanno bloccata. Tuttavia, la morte di Giulia Cecchettin e le proteste delle donne a Roma mi hanno dato la carica per andare avanti. Ho capito che questa storia faceva parte di una lotta più ampia contro la misoginia.

Hai trovato il processo di scrittura terapeutico?

Sì, assolutamente. Scrivere mi ha dato controllo e mi ha aiutata a rielaborare l’esperienza. È facile cadere nella colpa e nella confusione, ma scrivere tutto parola per parola mi ha permesso di affermare che sì, è successo davvero. Mi ha aiutata a sopravvivere e a non eliminare il ricordo.

Un uomo bianco, etero, cisgender ha meno occasioni in cui il proprio potere viene messo in discussione

Hai trovato supporto nella comunità artistica?

Quando ho iniziato a esibirmi nei 10 minuti di Scratch Night, i primi che mi hanno dato fiducia sono stati i ragazzi gay. Si sono sentiti compresi, perché si sono trovati in situazioni simili a quelle delle donne. Credo che chiunque possa capire, ma spesso un uomo bianco, etero, cisgender ha meno occasioni in cui il proprio potere viene messo in discussione.

Quando una donna viene violata, una parte di lei muore

Come hai lavorato alla musica e alla costruzione dello spettacolo?

La musica è fondamentale nello spettacolo. Collaboro con una musicista meravigliosa, Midori Jaeger, che è praticamente un personaggio dello spettacolo. Il violoncello, che è il mio strumento preferito, aiuta a creare un mondo fantastico e surreale. Volevo che fosse una sorta di marcia funebre, perché quando una donna viene violata, una parte di lei muore. Il violoncello rappresenta la dicotomia tra vita e morte, tra paradiso e inferno.

Cosa speri di ottenere attraverso questo spettacolo?

Spero di partecipare a una conversazione più ampia sulla violenza contro le donne. È un problema comune che va affrontato culturalmente. Sto lavorando con diverse associazioni benefiche, come Women’s Aid, per raccogliere fondi e sensibilizzare su queste tematiche. Vorrei che il mio spettacolo avesse un impatto concreto.

Hai pensato di portare lo spettacolo in Italia?

Mi piacerebbe, ma ho un po’ di paura. È una storia personale, e presentarla in Italia mi mette ansia. Tuttavia, se riuscissi a trovare delle residenze d’arte e magari tradurlo, sarebbe bellissimo portarlo lì. Sarebbe splendido anche fare dei tour nelle università e scuole, magari come parte di un programma educativo.

Lezioni di autodifesa

Hai considerato collaborazioni con altre artiste o iniziative simili e parallele? Mi viene in mente l’artista Roberta De Caro che organizza workshop di scultura per donne sopravvissute a violenza domestica.

Non conosco bene Roberta, ma da quel che mi dici il suo lavoro sembra assolutamente importante ed in linea con il mio spettacolo, quindi sarebbe bello conoscersi. Vorrei anche organizzare lezioni di autodifesa, magari lavorando con un club di judo, per dare alle donne più fiducia in sé stesse.

La tua famiglia ha visto lo spettacolo?

Sì, mia madre l’ha visto. È stato forte, ma l’avevo avvisata. Lei è sempre stata una sostenitrice delle politiche sociali e delle pari opportunità, quindi credo che sia fiera di me.

Giulietta (Gigi) Tisminetzky di How to Kill a Chicken (photo credits Stewart Bywater)
Giulietta (Gigi) Tisminetzky, How to Kill a Chicken (photo credits Stewart Bywater)

Oriana Fallaci e Giovanna Jean Govoni

Esperienze lavorative che hanno lasciato il segno?

Quando ho recitato per il cortometraggio ”A Cup of Coffee with Marilyn” della regista Alessandra Gonnella, io interpretavo un personaggio reale che si chiama Giovanna Jean Govoni. Giovanna è stata la prima PR italiana che lavorava con American Airlines negli anni ’50 sui voli Roma-Los Angeles, portando in Italia tutte le star del cinema.

Oriana Fallaci, che era molto intelligente e ambiziosa, a 19 anni era già entrata in contatto con Giovanna, forse grazie al suo primo lavoro di giornalista. Oriana coltivò questa relazione per andare in America, anche se il giornale non le pagava il volo. Così Giovanna la portò a New York, perché Oriana voleva intervistare Marilyn Monroe. Adoro Oriana e tutto il lavoro che ha fatto; è stata una delle rocce del giornalismo, veramente eccezionale e molto franca.

Il figlio di Giovanna Govoni, con cui mi sono confrontata per preparare il ruolo, mi raccontava che Oriana era determinata, tanto che rompeva le scatole per riuscire ad entrare nelle case delle star e parlare con attori del calibro di Orson Welles. Giovanna ospitava nei suoi salotti i personaggi più incredibili. Il figlio, che ora ha 60 o 70 anni, ricorda di quando era bambino e vedeva queste scene incredibili nel salotto di sua madre. Che tempi!

Essere divisa tra due culture

Hai un libro che hai letto ultimamente che ti ha colpita in modo particolare?

Il libro che sto leggendo ora si chiama Tomorrow, Tomorrow, and Tomorrow. C’è una frase bellissima in cui il protagonista, che è mezzo coreano e mezzo ebreo, dice che quando sei a metà tra due mondi non ti senti mai completamente a casa. Questo sentimento rispecchia molto quello che provo io, essendo divisa tra due culture. Sono italiana, ma mi sento un po’ diversa. Quando vado in Argentina, non sono davvero argentina, anche se parlo la lingua e ho la mia famiglia lì. Le referenze culturali sono diverse.

L’Argentina è bellissima ma anche estremamente provata. Per noi romantici è un luogo affascinante con tutta la sua Art Deco decadente, che ti spezza un po’ il cuore. Ogni volta che ci torno è sempre peggio: più violenza, più povertà. C’è un trauma profondo legato alla dittatura militare, tanto che la gente ha paura dell’autorità e non si fida della polizia. È un paese bellissimo con una cultura magnifica, e amo andarci. Ogni fase della mia vita ha portato una nuova scoperta lì.

Ti senti di appartenere di più al teatro o al cinema?

Non ho lavorato abbastanza nel cinema, quindi mi sento più vicina al teatro. Vado a teatro ogni settimana. Sono una fanatica del teatro e a Londra c’è così tanto da vedere. Ho studiato cinema, quindi è anche parte di me. Da spettatrice, l’esperienza è diversa.

Sogno nel cassetto?

Cavalcare la scena di teatri importanti, come il National Theatre, o l’Almeida!

 

Gigi  portera il suo spettacolo How to kill a chicken al Fringe Festival di Edimburgo dal 13 al 26 agosto, presso l’Underbelly. 

Di seguito, il trailer dello spettacolo:

Masterclass e Networking al West London Film Festival, nuove strade per il cinema indipendente

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Filmmakers Networking al West London Film Festival 2024
Filmmakers Networking al West London Film Festival 2024

Nuovo appuntamento di networking per professionisti del cinema martedì 13 agosto al Strongroom Bar di Londra dedicato alla Film Festival Masterclass, organizzato dal West London Film Festival con Cine Circle Uk.

Intercomites Regno Unito in azione

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Intercomites riunione annuale 2024 (copyright Comites di Manchester)
Intercomites riunione annuale 2024 (copyright Comites di Manchester)

Ieri, 24 luglio 2024 si è svolta in modalità remota la riunione annuale dell’Intercomites Regno Unito. L’Intercomites, l’organo di coordinamento tra i Comitati degli Italiani all’Estero (Comites) nel Regno Unito, ha come obiettivo lo scambio di informazioni e l’ottimizzazione delle risorse per migliorare il supporto alla comunità italiana residente nel paese.

Intercomites Regno Unito in azione

All’incontro hanno partecipato diversi rappresentanti delle istituzioni italiane nel Regno Unito, tra cui il Console Generale d’Italia a Londra, Domenico Bellantone, la Console d’Italia a Londra, Rossella Gentile, e il Console Generale d’Italia a Edimburgo, Veronica Ferrucci. Presenti anche il Consigliere dell’Ambasciata d’Italia a Londra, Paolo Mari, e l’Assistente Amministrativo dell’Ambasciata, Lucia Zoroddu.

Gli onorevoli Toni Ricciardi e Simone Billi erano anch’essi tra i partecipanti, insieme ai rappresentanti del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), Elena Remigi e Giovanni D’Angelo. Per i Comites invece, si contano il presidente del Comites di Londra, Alessandro Gaglione, il presidente del Comites di Manchester, Cesare Ardito, e la vice-presidente del Comites di Scozia e Irlanda del Nord, Michela Calcagni.

Temi trattati e iniziative future

Il focus dell’incontro è stata  l’importanza di un costante scambio di informazioni e del mutuo soccorsotra i Comites. Questo è particolarmente rilevante non solo per gli italiani nel Regno Unito, ma anche per la più ampia comunità italiana all’estero. Tra gli esempi riusciti in tema di collaborazione tra i Comites in passato si annoverano i webinar sull’EU Settlement Scheme e il reportage sulla comunità italiana commissionato a Complitaly, le cui riprese sono state recentemente completate.

Guardando al futuro, l’Intercomites ha espresso l’intenzione di organizzare ulteriori seminari e webinar su argomenti quali l’identità digitale italiana (SPID), e i nuovi visti lavorativi, familiari e di studio. Inoltre, si continuerà a fornire supporto e orientamento riguardo all’EU Settlement Scheme.

Miglioramento dei Servizi Consolari

Come già avevamo condiviso in passato i Comites continueranno a facilitare  l’andamento dei servizi consolari, come l’emissione di passaporti, carte di identità e l’iscrizione all’AIRE. L’obiettivo è dare voce ai connazionali e riportarle alle istituzioni.

Durante la riunione è stato inoltre espresso ottimismo riguardo alla proposta di legge dell’On. Ricciardi, attualmente in fase di discussione in Parlamento.

La proposta prevede di destinare una parte dei proventi derivanti dal rilascio dei passaporti agli uffici consolari, creando un incentivo alla produttività e facilitando gli investimenti per migliorare i servizi e ridurre le attese.

La costante collaborazione tra le varie istituzioni rappresenta la conditio sine qua non per poter migliorare i servizi ed essere di continuo supporto alla comunità italiana nel Regno Unito.

Promuovere iniziative che rispondano alle esigenze dei connazionali e migliorare la qualità dei servizi offerti sono certamente le priorità.

Da 143 anni unità sociale e identità collettiva con la processione della Madonna del Carmelo

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Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Durante una chiamata con un caro amico dall’Italia, storico d’arte laureato cum laude e dunque impiegato sottopagato in tutt’altro settore, gli raccontavo della processione della Madonna del Carmelo che si è tenuta domenica 21 luglio nel quartiere di Clerkenwell. Ad un tratto, tra il serio e il faceto, mi ha domandato: ”ma gli anglicani come la prendono la processione?”

Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024
Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Una tradizione lunga 143 anni

La risposta, molto candidamente, è stata che da 143 anni a questa parte la prendono molto bene. Oltre al fatto che, come ci ha ricordato in questo articolo Annalisa Valente, la tradizione trova le sue radici anche nella storia religiosa britannica, la processione è, dal punto di vista sia storico che antropologico, un evento estremamente interessante.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Icone dei santi in Live Action

Partiamo appunto dal quartiere stesso che, grazie alla processione, alle bancarelle e alla sfilata dei santi e delle vergini in Live Action, ha richiamato a sé molti fedeli retrò: vecchi signori con la scoppola e signore imbellettate, fresche di parrucchiere.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Solidarietà e cibo su Market Street

Se non fosse per ”Ballo Ballo”di Raffaella Carrà sparata a tutto volume da una delle casse piazzata su Market Street, sembrava veramente di rivedere la Little Italy dei tempi andati. Invece, è bastato voltare l’angolo. Straordinariamente, insieme alle generazioni di migranti agée, a seguire i carri annunciati uno ad uno dagli altoparlanti, c’erano darkettoni, giovani studenti in pausa dagli esami, ragazze color oro-arancio vittime dello spray self-tanning, svariate mamme/nonne/zie, e curiosi da tutte le parti del mondo.

Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Invocare la protezione divina

D’altronde è bene ricordare che il potere temporale e quello spirituale, la politica e la religione, segnano il confine tra l’uomo e l’animale. E le processioni con le statue dei santi hanno una lunga tradizione che risale al Medioevo. Originariamente, erano un mezzo per esprimere la devozione religiosa pubblicamente e per invocare la protezione divina.

Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Unità sociale e identità collettiva

L’uso di statue o icone nelle processioni è radicato nella pratica cristiana (al contrario di religioni aniconiche come Islam ed Ebraismo) di venerare figure sacre, un modo per rendere tangibile il sacro e il divino. Durante il periodo medievale, le processioni erano anche momenti di unità sociale e identità collettiva. Probabilmente è proprio quest’ultimo aspetto a rendere l’evento ancor più sentito e atteso da un pubblico altresì eterogeneo, ma felice di poter contribuire alla beneficenza, con gli incassi devoluti alla St. Peter’s Church per sostenere le sue attività sociali e comunitarie.

Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Dopo 35 anni torna la statua di San Gennaro a Londra

Oltre al ricco programma tra carri, santi, preghiere, e fiumi di Aperol Spritz, che pare essere l’unica bevanda alcolica vendibile al di fuori degli italici confini, c’è stato un avvenimento eccezionale: il ritorno a Londra della statuetta di San Gennaro dopo ben 35 anni. Un’occasione che non solo riporta alla memoria tradizioni passate, ma illumina il volto di una Londra che evolve e si trasforma, mantenendo vivi legami storici e culturali. Fuori dalla chiesa, ad aspettare l’arrivo di Padre Andrea Fulci per celebrare messa, ho visto sei ragazzi vestiti con la stessa maglietta bianca indossata con orgoglio: stampata sopra di esse c’era proprio la sagoma di S. Gennaro che quei ragazzi, immortalati in un momento di relax, nicotina e riposo, avevano trasportato per le vie del quartiere.

Statuetta S. Gennaro torna a Londra Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Statuetta S. Gennaro torna a Londra Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Napoli e San Gennaro

Mi sono istintivamente avvicinata a loro per chiedergli di condividere con me l’avventura del ritorno di San Gennaro a Londra e il loro calore l’ho percepito come quando vai a Napoli e trovi un caffè pagato. Francesco, un ragazzo con la faccia pulita e i baffi da uomo, si è fatto da portavoce per gli altri ragazzi, anche per l’esuberante Nunzio”È un sogno che si avvera per tutti noi. La nostra comunità è più affiatata che mai, e questo ritorno rafforza i legami con le nostre radici. È come avere un pezzo di Napoli qui con noi.’‘ Le sue parole fanno da eco a quelle di chi in prima battuta si e’ preso carico e responsabilità della ”missione San Gennaro”: Mariagrazia e Davide.

Davide trasporta la statua di San Gennaro  durante la processione di S. Maria del Carmelo
Davide Magliuolo trasporta la statua di San Gennaro durante la processione di S. Maria del Carmelo (Photo credits Davide Magliuolo)

Ci ha raccontato Mariagrazia: ”Ci tenevamo tantissimo a portare finalmente dopo 35 anni San Gennaro qui a Londra, è stata dura ma ce l’abbiamo fatta, e l’apporto di Davide è stato fondamentale.

Mariagrazia Imperatrice ha coordinato il trasporto della statua di San Gennaro a Londra (Photo credits Mariagrazia Imperatrice)
Mariagrazia Imperatrice ha coordinato il trasporto della statua di San Gennaro a Londra (Photo credits Mariagrazia Imperatrice)

Siamo entrambi napoletani, lui è del Vomero, io sono di Fuorigrotta, ovviamente tanto devoti a San Gennaro. Sappiamo che la nostra comunità qui a Londra è veramente vasta, se non sbaglio è la terza più grande, e quindi perché non portare di nuovo San Gennaro qui, a casa sua?”

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

La storia del Barone La Spina

Quando ho salutato i ragazzi, dopo aver assistito all’attesa apparizione delle colombe with confetti, ho sentito in lontananza un suono antico, familiare, dalle ancestrali radici. Seguendolo sono arrivata ad una corte e massiccia gradinata dove seduti c’erano tre signori, ma senza scoppola. Quel suono così riconoscibile nella memoria erano loro intenti a giocare a morra e avendo passato tutta la mia infanzia tra le colline laziali, di vecchi accaniti che giocavano a morra ne ho nella memoria una collezione più ampia di quella dei miei cucchiaini da tè.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Vengo per vedere le facce di cera

Mi sono poi fermata a chiacchierare con il signor Michele, anche detto Barone La Spina, arrivato a Londra tantissimi anni fa. Mi ha raccontato che prima trasferirsi in questa città aveva un senso ”Almeno quando sono arrivato io c’erano i punk. Ora arriva solo la feccia, ecco perché questi hanno votato Brexit”. È una frase fatta ma con il cuore di Michele che sembra essersi indurito. ”Ogni anno vengo qui solo per vedere alcune facce, le solite facce di cera. Sempre più di cera”.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Michele è sarcastico, sicuro di sé. Mi racconta che lui a Londra ha fatto di tutto, anche un film. Il film si chiama ”I pazzi della fermata numero 9” che trovate su YouTube. Con un po’ di budget sarebbe stata una vera gemma. Una di quella che tiri fuori dal cilindro al primo date cerebrale per impressionarl*. Michele si è sentito sopraffatto dalla bellezza degli anni ’70 e ’80 che una triste notte tra i mondiali e il Millennium bug ha attraversato i campi Elisi.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Costruire casa altrove

In questo caleidoscopio di colori, dove abbiamo sorriso, camminato, ascoltato, conosciuto, mangiato, bevuto e recuperato un piccolo pezzetto di pace, forse proprio il signor Michele, disincantato ma desideroso di scoprire ancora, rappresenta l’alfa e l’omega delle nuove e delle vecchie generazioni. Bestiari di migranti diversi, che non scappano da casa ma tentano di costruirla altrove.

Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)
Padre Andrea Fulci Processione Madonna del Carmelo a Clerkenwell 2024 (photo credits Luigi Russo)

Consolato di Manchester in difficoltà, Cassandra sollecita il viceministro Cirielli

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La sede del Consolato d'italia a Manchester (ph. Ln24)
La sede del Consolato d'italia a Manchester (ph. Ln24)

Problemi per gli italiani in Uk a causa delle difficoltà operative del Consolato di Manchester, Cassandra del Comites, chiede l’intervento del vice ministro degli Esteri Edmondo Cirielli.

Marco Gambino è Supulcius, nessuno e centomila

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Marco Gambino interpreta Supulcius sul set di Those about to die
Marco Gambino interpreta Supulcius sul set di Those about to die

Oggi parto alla rovescia.

Avete presente quando accade qualcosa o incontrate una persona e subito dopo il vostro cervello comincia a ruminare nella memoria per trovare un’assonanza che connetta quell’evento a qualcos’altro? Un crocevia di emozioni, di colori, di fotografie, di vecchi film?

Dopo aver incontrato l’attore Marco Gambino, originario di Palermo e figlio d’adozione londinese autenticata (da ben 37 anni), ho vissuto questo lungo momento che mi ha portato a disegnare nell’aria delle suggestioni. Ciò che ne è uscito fuori è stato un bar in Provenza dove Lucio Dalla e Bertolt Brecht s’incontrano per dare vita a un personaggio.

Ecco quel personaggio che ”la casa dove è nato l’abita senza luna quando dorme sul prato”, completamente immerso nell’ambivalenza dell’essere e del non essere attore abita la pelle di Marco Gambino, seduto con me in un bar sì, ma ad Haymarket.

Marco Gambino (photo credits Jamie Genovese)
Marco Gambino (photo credits Jamie Genovese).

Erase and rewind.

È una giornata meteorologicamente priva di senso, che ben presto ritrovo perché vivo a Londra. Il centro è impaccato di turisti e scolaresche europee in vacanza-studio, che temevo di non vedere più causa Brexit. È sempre colpa di Brexit. Imprecare contro Brexit non sarà mai peccato.

Evitare la parola ”io”

In ogni caso, Marco arriva spaccando il secondo. Ha il saluto gentile, come gentile è il suo modo di ordinare una tazza di caffè nero. Mi anticipa che per tutta l’intervista proverà ad evitare la parola ”io”. ‘‘Io ho fatto questo, io ho scritto quest’altro. Ma basta! Noi! Noi! Noi! cos’è l’io senza il noi?” Io rispondo tra me e me: teatro epico.

Marco è tornato da poco dal settantesimo Festival di Taormina, dove ha presenziato all’anteprima del film ”Il giudice e il boss” di Pasquale Scimeca, che racconta la vera storia del giudice Cesare Terranova e del suo aiutante, il poliziotto Lenin Mancuso, uccisi nel 1979 per mano degli uomini del boss di Cosa Nostra, Luciano Liggio. Marco Gambino in quel film interpreta il ruolo del pentito mafioso ”Ciannuzzo” Raia.

Marco Gambino interpreta Supulcius sul set di Those about to die
Marco Gambino interpreta Supulcius sul set di “Those about to die”.

Il ”Sandalone” Those about to die

Stando alle dichiarazioni rilasciate durante l’ultimo incontro del 3,2,1 Action! Marco, nonostante abbia combattuto e continui a combattere la mafia con gli strumenti che si è costruito, ossia la scrittura e la recitazione, raccontandosi aveva espresso il desiderio di tornare ad esplorare ruoli che fossero estranei alla parte oscura della Sicilia, o meglio, all’Italia. E, sempre come dice lui ‘‘Continuando a seminare, prima o poi i frutti crescono”.

I suoi sono andati a finire in mano alla seconda dinastia imperiale romana, quella dei flavi, interpretando il ruolo del senatore Supulcius nella serie Amazon Prime “Those About to Die”. Diretto dal duo Roland Emmerich/Marco Kreuzpaintner, e sceneggiato dal Robert Rodat di “Salvate il soldato Ryan”“Those About to Die” è un ”Sandalone” di intrighi, lepidezze, amabili villan e tanta tanta CGI.

Per questa intervista siamo partiti proprio da lì.

Marco Gambino (Photo credits Jamie Genovese)
Marco Gambino (photo credits Jamie Genovese).

L’americano bannato

Marco, raccontaci della tua esperienza sul set di Those About to Die. Com’è stata la costruzione del personaggio e qual è stato l’impatto del contesto multiculturale sul tuo lavoro?

“Allora, l’esperienza è stata unica. Il progetto nasce da un’idea del regista di creare un gruppo di attori che, pur mantenendo la loro unicità linguistica e culturale, lavorassero insieme. Nonostante tutti parlassimo inglese, non c’era nessuna forzatura nel linguaggio. Si trattava di un inglese variegato, con accenti spagnoli, svedesi, danesi, norvegesi, francesi. La protagonista, Cala (Sara Martins), è francese e interpreta un personaggio etiope. Questo mix di accenti e origini ha dato al progetto una dimensione molto autentica e soprattutto l’accento americano è stato semi-dichiaratamente bannato. Non avere quella sensazione di lontananza che l’americano può dare quando si parla dell’antica Roma ha reso il tutto più sensato, perché l’inglese “sporco” ma chiaro ha dato coerenza alla messa in scena”.

L’ammirazione per i costumisti

Quale altro aspetto ti ha colpito?

“I costumi. I costumi sono stati fondamentali per conoscere il mio personaggio. Ho sempre trovato affascinante il lavoro dei costumisti. Cuciono il carattere, la persona che l’attore andrà ad interpretare. Come se ti leggessero il copione ad alta voce e te lo presentassero sotto un’altra veste. Gianni Casalnuovo, il costume designer per questo progetto, è stato eccezionale. È anche candidato a un Emmy per i costumi di ”Ripley”. Il suo lavoro non si limita a ”vestire”, ma a dar forma e sostanza ai personaggi. Per ”Those About to Die” le toghe sono state l’emblema di questo studio minuzioso. Le stoffe necessarie sono state selezionate con grande cura, dopo vari invii dall’India. Ogni toga doveva avere un certo tipo di panneggio e spesso ci volevano due persone per aiutarti a indossarla correttamente”

Marco Gambino in Those about to die (illustrazione di Simone De Leo)
Marco Gambino in Those about to die (illustrazione di Simone De Leo).

L’intransigenza di Roland Emmerich

Com’è stato lavorare con gli altri attori e con il regista?

“Il lavoro con gli altri attori e con il regista è stato incredibile. Non c’era una gerarchia rigida, eravamo tutti sullo stesso piano. Questo senso di uguaglianza e condivisione ha creato un ambiente di lavoro molto positivo, pur rimanendo intenso. In particolare, la nascita dell’amicizia con l’attrice tedesca Gabrielle Scharnitzky è stata per me significativa. Ricordo una scena in cui lei, che interpreta il ruolo della nutrice nella casa del senatore Marsus (Rupert Penry-Jones), pur rimanendo immobile, ferma in un angolo era completamente immersa nel personaggio. E gliel’ho detto subito dopo il cut. ”Complimenti perché ero lì che ti guardavo apparentemente senza fare niente, ma ho capito che in quel momento eri Drusilla”. Poi poverina è inciampata in una piscinetta perché non ha visto un gradino e ci siamo spaventati tutti. Lavorare con Roland invece, che ha molta esperienza, è stato prezioso. Anche se la sua intransigenza può sembrare dura, rispetto il suo impegno e la sua capacità di mantenere un alto standard”.

L’uomo che vince perdendo

Come hai ottenuto il ruolo e come hai preparato il tuo personaggio?

“Ho ottenuto il ruolo grazie alla casting agent Michela Forbicioni, che già conosceva il mio lavoro. Dopo aver fatto il provino a dicembre, ho avuto notizie solo a marzo. Michela è andata dal regista più volte per dirgli di visionare la mia tape. È stata una grande soddisfazione sapere che quanto avevo seminato stava finalmente dando i suoi frutti.

Il mio personaggio, Supulcius, è un senatore romano e capo dei corridori di bighe al Circo Massimo, appartenenti alla fazione dei Verdi. È interessante perché fa soldi perdendo, una sorta di investitore che guadagna con le perdite e le informazioni che vende. Non è un personaggio che mi somiglia, ma è affascinante. Per prepararmi, mi sono immerso nella storia romana, visitando il British Museum e leggendo i lavori di Mary Beard. Ho cercato di ristudiare il contesto e il mondo in cui si svolge la storia”.

Il ”baby” Cicerone

E come hai trovato la vita a Roma durante le riprese?

“Roma è sempre stupenda. Anche se il lavoro è stato intenso, abbiamo trovato il tempo per esplorare e goderci la città. Siamo stati a Trastevere, e i miei colleghi inglesi si sono acclimatati nei pub locali. Mi univo a loro, anche se preferivo prendere solo una mezza pinta che mi è costata il soprannome di ”baby”. È stato bello condividere momenti di relax e fare loro da Cicerone. Soprattutto per quel che riguardava i ristoranti”. [ride]

Impariamo a dire di no

Hai avuto momenti difficili o particolari durante le riprese?

“Sì, ho vissuto una situazione piuttosto critica in cui un attore è stato licenziato in tronco durante le prove. È stato un momento delicato per tutti. L’attore in questione, nonostante sia molto bravo, si è lasciato sopraffare dall’emozione. Questo episodio mi ha fatto riflettere su quanto sia cruciale una comunicazione chiara e una buona gestione dei conflitti sul set.

L’altra esperienza dolorosa te la introduco lanciando un messaggio: impariamo a dire di no. In un ambiente come questo, è cruciale mettere la propria sicurezza al primo posto. A me è successo che mi hanno chiamato mentre ero in albergo, aspettando che il tempo migliorasse per girare una scena. Ho ipotizzato che potessero chiedermi di fare qualcosa, ma non mi avevano avvisato ufficialmente. Alla fine, mi hanno fatto fare una prova di stunt, alquanto pericolosa, senza neanche consultare il regista. Questo tipo di richiesta è inaccettabile, e ho dovuto affrontare delle conseguenze serie. Per mesi non sono riuscito nemmeno a fare una passeggiata di 500 metri senza fermarmi per il dolore. Quando Roland lo ha saputo è andato su tutte le furie”.

Marco Gambino (photo credits Adrian McCourt)
Marco Gambino (photo credits Adrian McCourt).

Appartengo al teatro

Dove ti senti di appartenere di più, al teatro o al cinema?

“Decisamente al teatro. Il teatro mi dà una gioia speciale per vari motivi. Ho più tempo per studiare e prepararmi, con settimane di prove che mi permettono di lavorare approfonditamente sui personaggi. Nel cinema, mi sento spesso prigioniero del punto di vista del regista e del montatore. Il teatro mi offre la possibilità di esplorare il personaggio in modo più completo e di interagire direttamente con il regista, il che arricchisce l’esperienza artistica. In più sono un accanito frequentatore di teatri. Sono sempre lì che osservo, studio. Il teatro è la mia scuola”.

E del fare teatro in Italia, della possibilità di far riscoprire la sua importanza nonostante i tagli e l’allontanamento del pubblico, cosa ne pensi?

“È una sfida, ma credo che ci sia speranza. Ho visto i lavori di Roberto Cavosi, un grande drammaturgo, e ho trovato il teatro a Roma, sebbene non strapieno, con un pubblico diverso rispetto a quello a cui ero abituato. In Italia il pubblico tende ad essere più intellettuale e meno variegato rispetto a Londra, dove trovi persone di tutte le età e background. La differenza è evidente: a Londra c’è una ricca varietà di audience e stili teatrali, mentre in Italia sembra esserci una certa uniformità. Credo che per riportare il pubblico a teatro sia necessario diversificare l’offerta e coinvolgere più persone con stimoli differenti”.

Marco Gambino interpreta Supulcius in Those about to die
Marco Gambino interpreta Supulcius in “Those about to die”.

L’Enrico IV di Richard Harris

Hai accennato a un sogno legato al teatro. Puoi dirci di più?

“Il mio sogno è calcare almeno una volta un palcoscenico di teatri che considero luoghi eletti, come il National Theatre, il Royal Court, il Donmar o l’Almeida. Quando sono arrivato a Londra, dopo un distacco violento dalla mia famiglia, ho trovato conforto in un Enrico IV di Pirandello al West End con Richard Harris. Questo mi ha fatto capire che, anche lontano dalla mia terra, potevo ritrovare quello che avevo lasciato. Il mio sogno è in linea con chi sono e con quello che amo fare”.

Provate a contare quante volte ha detto la parola ”io”. Anzi, ve lo anticipo: zero.