Nella mia storia di amore viscerale verso le donne che hanno combattuto per garantire la nostra stessa sopravvivenza nella storia dell’umanità, sono debitrice al lascito di una in particolare: Kathy Acker, poetessa, drammaturga, femminista queer punk, che con la sua scrittura idiosincratica e provocatrice ha lasciato un segno indelebile nella letteratura contemporanea.
Diceva la Acker ”I write to reclaim my own narrative, to tell my own story on my own terms”
enfatizzando il potere della scrittura come mezzo per reclamare la propria narrazione e plasmare la propria storia secondo le proprie regole. Così dicendo, Acker ricorda l’importanza di prendere il controllo delle proprie esperienze e di liberarsi dai vincoli imposti dalla società, o da qualsivoglia forza esterna. In pieno accordo con la sua visione, è necessario continuare a sottolineare che il carattere ”emancipatorio” dell’arte consente agli individui di amplificare la propria voce, e di creare appunto una narrazione personale in grado di riflettere la loro verità e il loro mondo interiore. E l’arte, declinata in ogni sua forma, continua a reclamare questo imprescindibile diritto.
Come scrittrice ed editor sento che il mio contributo soggiace anche nella ricerca di queste voci, raccontarle, e diffonderne il messaggio. Nel rispetto di questa responsabilità, ci tengo a condividere il lavoro di un’artista che continua ad arricchire il panorama musicale, teatrale e accademico contemporaneo: Filomena Campus.
Cantante jazz, ricercatrice e regista teatrale, Filomena Campus nel 2010 ha fondato il Filomena Campus Quartet e nel 2013 il festival annuale My Jazz Islands, poi ribattezzato Theatralia Jazz Festival. Tra i suoi progetti più noti c’è “Monk Misterioso,” dedicato al musicista Thelonious Monk, che ha avuto grande successo nel Regno Unito, dove lavora e risiede. Campus è anche direttrice artistica di Theatralia, una compagnia teatrale che fonde letteratura, performance art e musica dal vivo, sostenuta dall’Arts Council England.
Ho avuto il grande piacere d’intervistarla e lascio dunque spazio alle sue parole per farvela conoscere meglio.
Filomena grazie davvero per la tua presenza. Vorrei cominciare chiedendoti come, nei tuoi progetti, si fondono le influenze della cultura sarda con quelle internazionali e moderniste? In che modo queste radici influenzano il tuo approccio al jazz e alla teatralità?
In realtà ho riscoperto il valore delle mie radici sarde soprattutto una volta che ho lasciato la mia isola, oltre venti anni fa, e ho capito la fortuna di nascere in un luogo meraviglioso e in una cultura antica, ricca, e profonda. Negli anni è diventato sicuramente un valore aggiunto alla mia performance, ad esempio nel brano (Summer Lights) dedicato a Maria Carta, che inizia con una sua poesia, negli arrangiamenti di brani tradizionali, o nelle composizioni, insieme al pianista del quartetto, Steve Lodder, di brani con testi in inglese e in lingua sarda.
Con la risata insieme alla bocca si spalanca anche la mente
Nelle tue performance jazzistiche e nelle produzioni teatrali, quanto conta per te il potere catartico dell’arte?
Come regista amo più lo straniamento e la presa di coscienza, in termini brechtiani. Come diceva spesso Franca Rame, citando Molière, con la catarsi l’audience si immedesima, piange, piange, e poi si torna a casa senza pensieri. Con la risata, invece, insieme alla bocca si spalanca anche la mente, in modo che entrino i chiodi della ragione. Ecco, come Rame, mi auguro che le spettatrici e gli spettatori tornino a casa, dopo un mio spettacolo, con testa (e il cuore) ‘inchiodati’.
Con il tempo, come è cambiata la tua percezione dell’arte e del tuo ruolo come artista? C’è stato un momento o una svolta che ha alterato in modo significativo il tuo approccio al jazz o alla regia?
Io temo che la forza rivoluzionaria del teatro e della musica siano un po’ venuti a mancare negli ultimi anni, come se l’intrattenimento fosse più importante dei contenuti.
La richiesta, comprensibile ma pesante, di riempire i jazz club e i teatri ci tolgono tempo ed energie preziose che invece potremmo dedicare alla pratica e alla ricerca necessarie per sviluppare nuovi progetti. I fondi per l’arte, a iniziare dall’Arts Council, sono stati decimati e le università stanno soffrendo tagli importanti, purtroppo molti dipartimenti di musica e teatro sono scomparsi negli ultimi anni.
Nell’ambiente artistico abbiamo attraversato crisi profonde, Covid e Brexit prima di tutto, che ci hanno lasciato per anni senza poter lavorare, e hanno sicuramente ridotto la nostra capacità e volontà di organizzare di tour e altri progetti, come ad esempio il mio Theatralia Jazz Festival, in cui facevo incontrare musicisti/e inglesi e italiani. Viaggiare e portare concerti o spettacoli all’estero infatti è diventato parecchio complicato. Questo ovviamente indebolisce anche la creatività, la possibilità di collaborazioni internazionali, di incontri artistici, che sono fondamentali per l’arte.
L’approccio umano, l’apertura mentale, l’amore per l’improvvisazione
Come hai costruito e coltivato collaborazioni con artisti così diversi come Orphy Robinson, Paolo Fresu, e Laura Cole? Qual è l’elemento comune o il terreno di esplorazione condiviso che ti ispira in queste collaborazioni?
Sicuramente l’approccio umano, l’apertura mentale, l’amore comune per l’improvvisazione, la voglia di osare e sperimentare in modo meno ‘safe’, intrecciando diverse arti (musica/teatro/performance art/letteratura/video art etc).
Come si è evoluta la tua esperienza come donna nel panorama jazz? Quali sfide hai affrontato e quali consigli daresti alle giovani artiste che si affacciano su questo mondo?
Oggi per fortuna ci sono tantissime donne jazziste, non solo cantanti. In UK c’è una forte coscienza delle discriminazioni, a livello intersezionale, non solo di gender, e vedo che si stanno facendo passi importanti verso un equilibrio in questo senso. C’è ancora tanto da fare, e le sfide sono ancora tante per le donne, ma e’ bello vedere che qualcosa si muove.
Il consiglio è di lavorare seriamente, studiare, praticare, ascoltare di tutto, ed esplorare la propria identità artistica. Imitare va bene quando si studia, ma quando siamo sul palco dobbiamo trovare ed esprimere il nostro suono, la nostra voce, quindi la nostra unicità.
Franca Rame è l’esempio del principio femminista
Nel tuo lavoro accademico sulla figura di Franca Rame, in che modo hai esplorato le sue pratiche femministe? Quali aspetti di Rame consideri più rilevanti per il teatro contemporaneo e per il ruolo delle donne nelle arti?
Per rispondere alla domanda sulle pratiche femministe di Rame sto scrivendo una tesi di dottorato… E’ un discorso complesso, totalmente affascinante, che mi ha assorbito a tempo pieno da quattro anni.
Rame ha fatto tantissimo per le donne, più di tante femministe, che nonostante il loro lavoro prezioso, spesso non uscivano da un linguaggio accademico che non arrivava alle donne, lavoratrici o casalinghe, che invece ne avevano un gran bisogno. Lei ha portato il teatro alla gente, con un linguaggio che non solo comprensibile, ma che rifletteva proprio i loro problemi, che purtroppo sono ancora attuali. Rame secondo me è l’esempio del principio femminista: il personale è politico, soprattutto nei suoi lavori autobiografici, come lo splendido monologo Sesso? Grazie! Tanto per Gradire!
Rame nei suoi monologhi sulle donne, affrontò il problema del doppio lavoro delle donne stesse, a casa e fuori casa, della violenza domestica, delle condizioni nelle prigioni, e tanto altro, il tutto attraverso una satira pungente e intelligente, attraverso la risata, ma anche nel registro drammatico, come il suo monologo sullo stupro. Inoltre Rame aveva un modo unico per creare un ambiente creativo di collaborazione e sostegno reciproco, per non parlare delle sue tecniche di scrittura scenica e improvvisazione, che venivano dalle sue origini nella Famiglia Rame, una famiglia di teatro con radici antiche, che arrivavano fino alla commedia dell’arte. Il Teatro era nel suo DNA.
Hai descritto l’improvvisazione come una “corsa nell’ignoto.” Cosa ti guida durante queste improvvisazioni? E come riesci a coinvolgere emotivamente il pubblico in questo viaggio?
Si crea sempre una magia, una complicità con il pubblico durante i nostri concerti, sono il quinto elemento del quartetto, essenziale per le nostre improvvisazioni. Si crea un dialogo sia con il pubblico, che tra di noi sul palco. L’improvvisazione è una lezione di ascolto e sostegno reciproco. Quando si crea un buon ‘interplay’ possono nascere improvvisazioni, momenti musicali che a volte viviamo come un roller coaster, da togliere il fiato, come trapezisti. L’improvvisazione in realtà non significa suonare a piacere come capita, ma ha delle strutture definite, ritmi, armonie, in cui si sviluppa un equilibrio paradossale tra libertà e matematica, che da’ vita a nuove melodie, create nel presente, e che spariscono subito. Non suoniamo mai una brano nello stesso identico modo, ma ogni volta è sempre uno spunto per nuove creazioni.
Nei tuoi spettacoli, come “Monk Misterioso,” esplori storie profonde o enigmatiche. Che ruolo pensi abbia la narrazione all’interno della musica jazz, e cosa vuoi trasmettere al pubblico attraverso queste storie?
Teatro e musica nelle mie performances sono la stessa cosa, e diventano anche un mezzo importante per raccontare qualcosa, se si ha qualcosa da dire. Il palco è per me uno spazio sacro, una responsabilità enorme, Nei miei lavori ho la necessità di dire qualcosa, non mi interessa l’intrattenimento fine a se stesso. Ci sono temi che mi stanno a cuore, come il dramma della discriminazione, che raccontiamo attraverso la storia del grande pianista nero americano Thelonious Monk (Monk Misterioso), la battaglia contro la pena di morte (Not in My Name), contro l’uso dell’uranio impoverito nelle zone di guerra e nelle missioni cosiddette di pace (U238 work in progress), contro la violenza domestica (Credevo che con Simonetta Agnello Hornby), o un paragone ironico tra i miei due paesi (Italy VS England, con Stefano Benni). Il nuovo album si chiama Theatralia, che da anni è il nome della mia compagnia teatrale, e rappresenta una sorta di mio avatar. E’ un termine che per me rimanda a uno spazio, un mondo di arte e creatività, che raccoglie le mie anime musicali, teatrali, e quella sarda. Non a caso ho scelto di avere nella copertina il lavoro splendido dell’artista sarda Gina Tondo, che ha colto proprio le mie diverse anime (teatro, canto, e la mia Sardegna).
Dobbiamo fare rumore, fare resistenza
Alla luce dei tuoi studi e del tuo impegno nella ricerca accademica, come vedi il futuro della fusione tra ricerca e performance? Quali temi o questioni vorresti esplorare prossimamente sia come artista che come ricercatrice?
C’è ancora un muro da abbattere tra ricerca accademica e performance. Ad esempio avrei voluto fare il mio dottorato solo in forma pratica (practice research), ma l’università preferisce una tesi scritta al linguaggio performativo, quindi in questi anni ho lavorato sodo per imparare l’accademese’. Questo linguaggio pero’ resta nell’ambito elitario dell’accademia, dove c’è tantissima conoscenza, teorie formidabili, che renderebbero la vita migliore per tutti, o almeno più consapevole, inclusiva, con una mente critica e aperta. Sono teorie e pratiche solo apparentemente a disposizione di tutti, infatti spesso la difficoltà del linguaggio accademico aliena chi magari potrebbe trarne beneficio. E oggi, nella situazione terribile in cui ci troviamo, ce ne sarebbe un gran bisogno. Io cerco di tradurre attraverso il codice performativo e musicale i risultati della mia ricerca accademica. Sia nei progetti teatrali che in quelli più strettamente musicali.
Un esempio è il brano ‘Song of a Siren’, che suoneremo al concerto del 24 Novembre al London Jazz Festival, scritto sulla musica della bassista del mio quartetto, Charlie Pyne. Il mio testo è ispirato alle teorie della grandissima filosofa Adriana Cavarero, con cui ho avuto la fortuna di collaborare.
Per quanto riguarda temi o questioni da esplorare prossimamente, insieme al nuovo album, Theatralia, e ai diversi progetti teatrali/musicali nati dalla ricerca su Rame e femminismo, credo fortemente che le artiste e gli artisti oggi debbano parlare dei tempi che stiamo vivendo. Stiamo circondati da orrore, da situazioni inaccettabili, ma procediamo nella vita quotidiana come se fossimo in denial, forse necessario per sopravvivere, ma questo non giustifica il silenzio. Dobbiamo fare rumore, fare resistenza, attraverso la creatività e l’arte, Come diceva Michela Murgia: ‘Non staremo zitte. Mai più.’
Oggi, molti artisti tendono a seguire tendenze specifiche nel jazz, talvolta limitandosi a un’estetica ben definita per avere maggiore visibilità. Come ti poni di fronte al rischio di conformismo nell’arte? Pensi che il jazz contemporaneo stia perdendo, in parte, la sua natura sperimentale e sovversiva?
Il jazz è un mondo immenso, con mille sfumature e possibilità. Forse per questo lo amo tanto. Non c’è giusto o sbagliato, c’è chi segue la tradizione dei classici e degli standards, e chi cerca nuove strade, nuovi modi e suoni.
Io per anni mi sono sentita inadeguata, nel senso che seguire tre strade parallele come jazz, teatro e ricercar accademica, è faticoso perché che non posso dedicarmi totalmente a una sola delle discipline. Richiede capacita’ da equilibrista, ma so che non posso e non voglio scegliere. Poi ho capito che è proprio ciò’ che rappresenta la mia ‘unicità’, quello che sono. Per questo i miei concerti sono performances che includono aspetti molteplici della mia arte, ogni volta è un esperimento. Mi diverte che a volte i critici non sappiano come inquadrarle (è jazz o teatro?) perché non si possono classificare attraverso criteri convenzionali. La natura sovversiva è sempre parte del jazz. Nel momento in cui improvvisiamo, sia nel jazz che nel teatro, dobbiamo saper rompere le regole, e seguire la creatività, la libertà di espressione, nel rispetto di quella di chi sta con noi sul palco.