Disse Enzo Biagi nel suo editoriale il primo giorno di direzione al Resto del Carlino:
«Considero il giornale un servizio pubblico come i trasporti pubblici e l’acquedotto. Non manderò nelle vostre case acqua inquinata.»
Era il 1970. Dieci anni più tardi nelle sale usciva il manifesto del visionario regista David Cronenberg, Videodrome, che mostrava al mondo come ”la video-immagine diventa carne”. Ossia, come l’intossicazione iconografica, derivata dal compulsivo consumo di immagini aveva generato un’assuefazione al virtuale da parte di un’umanità caratterizzata da un pericoloso e plasmabile pensiero collettivo. Oggi, il mondo distopico di cui parlava Cronenberg è stato finalizzato, portato a compimento. In quest’ottica ci siamo chiesti come intellettuali, giornalisti, scrittori, artisti possano contrastare, o meglio, ripensare il loro ruolo sfruttando in maniera consapevole e soprattutto responsabile gli strumenti a disposizione. Ne abbiamo parlato con Marco Varvello, capo dell’ufficio di corrispondenza Rai di Londra, e autore di libri di successo come Brexit Blues e Londra Anni Venti.
Non basta X o Facebook per avere una informazione completa e attendibile
Grazie Marco per essere intervento. Vorrei cominciare chiedendoti qual è, secondo te, il ruolo del giornalista nel contesto contemporaneo: è ancora quello di semplice “reporter” dei fatti, o si tratta di una figura che deve anche interpretare e spiegare il mondo che ci circonda?
“Contrariamente al passato oggi c’è una sovrabbondanza, non una carenza di informazioni e notizie. Il ruolo del giornalista professionista sembra dunque sminuito. Non c’è più bisogno di avere un abbonamento con l’ANSA o le altre agenzie internazionali, come capitava all’inizio della mia carriera, per accedere alle notizie importanti. Basta usare Google. In realtà in questo quadro il nostro ruolo di professionisti dell’informazione credo sia ancora più cruciale. Le notizie vanno messe in un contesto, vanno ovviamente verificate, confrontate con più fonti. Insomma non basta X o Facebook per avere una informazione completa e attendibile, ci vogliono professionisti chiamati anche a rispondere se sbagliano o danno informazioni sbagliate. Il mio maestro Enzo Biagi diceva che l’informazione è come l’acqua del rubinetto e noi siamo i gestori del servizio. Se esce acqua non potabile o persino velenosa ne dobbiamo rispondere di fronte al pubblico e ai probiviri dell’Ordine dei giornalisti. Chi mette un Post su Facebook invece no”.
Cosa significa per te essere un corrispondente estero? Quali sono le sfide principali che affronti nel riportare notizie dall’estero, in particolare dal Regno Unito?
“Anche la figura del Corrispondente estero sembra sminuita dall’accesso libero a un surplus totale di informazioni. Un tempo chi lavorava come giornalista dall’estero per una testata italiana era l’avamposto in un luogo poco conosciuto, dove era necessario vivere per capire cosa vi succedeva. Oggi è più frequente invece essere chiamato dall’ufficio centrale dove tutti i colleghi vedono i siti internazionali di informazione, tanto più in inglese. Tutti credono così di sapere tutto. Diverso magari per motivi linguistici il discorso per i Corrispondenti in Germania, come sono stato io per 8 anni, o dai Paesi arabi. In linea di massima però vale lo stesso criterio già illustrato. Il ruolo dei professionisti, anche all’estero, è di valutare e fornire informazioni corrette. Molti siti web fanno solo click-bait, cercano insomma notizie sensazionali per attirare l’attenzione nel mare di Internet. Se non le trovano le inventano o le esagerano. Il giornalista professionista, tanto più all’estero, ha il compito di riportare alla realtà molte informazioni distorte o gonfiate. Quanto a noi Corrispondenti RAI abbiamo la fortuna di molti spazi informativi. Non seguiamo dunque solo politica o economia o famiglia reale, ma anche eventi culturali, musicali, artistici di cui Londra è una capitale mondiale”.
La governance RA è caotica ma anche più pluralista
Come valuti lo stato della libertà di stampa nel Regno Unito rispetto all’Italia? Vedi differenze significative nella pressione esercitata sui media e nel loro modo di operare?
“La fama della stampa anglosassone mi sembra molto esagerata. Sia i broadsheet, sia tanto più i tabloid non sfuggono alla tendenza di schierarsi politicamente o di cercare il sensazionalismo. Anche la tanto sbandierata separazione tra articoli di cronaca e commenti in parte è superata. O in parte è stata acquisita anche dai media di altri paesi, Italia compresa. Non mi sembra dunque che nemmeno qui ci siano esempi totalmente immuni da vizi che compromettono il senso di imparzialità che un mezzo di comunicazione dovrebbe sempre far trasparire. La BBC comunque è un ottimo esempio di servizio pubblico anche grazie alla Governance che mette filtri decisionali tra i dirigenti operativi e quelli nominati. In ultima analisi però anche i vertici del servizio pubblico britannico sono scelti dal governo. La governance RAI, che fa capo alla Commissione parlamentare, è più caotica ma anche più pluralista nel rappresentare non solo l’esecutivo ma anche l’opposizione”.
Secondo te, quali sono le sfide maggiori che i giornalisti affrontano oggi nel preservare la propria integrità e la fiducia del pubblico?
“Non solo essere ma anche apparire indipendenti. In questo i colleghi delle redazioni inglesi, a cominciare da chi alla BBC segue la politica, fanno bene ad essere “confrontational” nelle interviste con MPs o membri del governo. La vecchia definizione del giornalismo come “cane da guardia” del potere può fare sorridere in tempi digitali ma rimane profondamente vera. Siamo un quarto potere, se non rinunciamo noi stessi ad esercitarlo per conto del pubblico”.
Attenzione appunto alle Fake News
Pensi che i social media abbiano un impatto più positivo o negativo sul giornalismo oggi? Quali misure potrebbero essere adottate per contrastare la diffusione di fake news o la disinformazione online?
“Quando ho cominciato a fare il giornalista, al quotidiano lombardo del pomeriggio “La Notte”, le foto della vittima di un fatto di cronaca andavano chieste alla famiglia o agli amici, spesso suonando campanelli e facendosi mandare -legittimamente- a quel paese. Oggi basta Facebook, tutti hanno il loro “quarto d’ora di celebrità” preconizzato profeticamente da Andy Warhol. Il lavoro del giornalista dunque è oggi sempre più di selezione e di verifica. Anche in TV le regole sono completamente cambiate. Spesso in passato non si trovavano immagini di eventi anche importanti. Oggi tra X (Ex Twitter) e YouTube anche i video si sprecano, da verificare comunque anche legalmente. Nelle News vale la regola del diritto di cronaca che normalmente consente l’utilizzo di materiale di terzi senza dover rispondere di violazione di copyright. Ma attenzione appunto alle fake News: i recenti riots in Inghilterra nell’agosto scorso hanno confermato come sia pericolosa la diffusione di notizie false che è difficile smentire una volta in rete”.
La cultura visiva ha preso il sopravvento
Negli ultimi anni, il giornalismo scritto ha subito un calo significativo di lettori, con molte persone che preferiscono informarsi attraverso contenuti rapidi e visivi, spesso sui social media. Come pensi che il giornalismo scritto possa reinventarsi per riconquistare il pubblico e tornare a essere una fonte primaria d’informazione? Quali strategie possono essere adottate per invogliare le persone a leggere articoli più approfonditi, in un’epoca in cui la velocità sembra prevalere sull’approfondimento?
“Non credo ci sia una ricetta specifica per i giornali, che non a caso si sono più o meno velocemente convertiti al digitale. Quelli di qualità hanno superato più rapidamente la transizione, offrendo un valore aggiunto che il lettore conosce e per il quale è disposto a pagare l’abbonamento. Il discorso sulla lettura è più ampio. Causa smartphones e cultura video (pensiamo a Tik Tok) il livello di attenzione sta scendendo vertiginosamente, soprattutto tra i giovani ma non solo. Si legge di meno, si guarda di più, la cultura visiva ha preso il sopravvento. Per questo le copie (anche digitali) dei quotidiani vendute oggi sono una frazione delle vendite solo di 10 anni fa. Le tv resistono meglio, ormai non c’è più distinzione di mezzo, solo di piattaforme distributive.”
Nel tuo libro Passo Falso evidenzi come molte delle promesse fatte dalla campagna pro-Brexit si siano rivelate illusorie. Quali pensi siano le conseguenze a lungo termine per il Regno Unito e per l’Europa?
“Sono stato facile profeta nei tre libri che ho di recente dedicato alla Brexit e alle sue conseguenze. Le conosciamo tutti noi che viviamo nel Regno Unito. Credo che le pagheremo ancora a lungo, tanto più vista la prudenza anche del nuovo governo laburista nell’affrontare la questione. Ma se la Brexit ci tormenterà ancora per molto tempo, il Brexitism, la sua ideologia, è finita da un pezzo, come i sondaggi ormai confermano regolarmente. Uscire dall’Unione Europea è stato un grave errore dettato da arroganza e interessi politico-economici, un atto di autolesionismo che gradualmente dovrà essere riparato. Stupisce piuttosto che in Europa e in Italia non si sia visto subito come l’uscita del Regno Unito danneggiava tutti, a cominciare dai nostri giovani che hanno perso diritti e devono affrontare molte difficoltà in più per studio e lavoro Oltremanica”.
La Little England ha vinto sulla Gran Bretagna, la paura dell’immigrazione ha fatto il resto
Qual è il clima sociale che percepisci a Londra post-Brexit? Quali sono le maggiori delusioni vissute dai cittadini, oltre ai problemi economici e politici che descrivi nel tuo libro?
“Questo Paese è sempre stato aperto e accogliente. Anche per motivi storici e coloniali il mondo è sempre stato il palcoscenico della vita britannica e soprattutto di Londra, città globale. Con la Brexit si è data voce e potere alle tendenze più isolazioniste e nazionaliste del Paese. La Little England ha vinto sulla Gran Bretagna, la paura dell’immigrazione ha fatto il resto, salvo trovarsi poi con cifre ancora più impressionanti di nuovi residenti ogni anno. Semplicemente ci sono meno Europei e invece più extraeuropei, con buona pace di chi temeva lo scontro di civiltà e di religioni. La grande delusione, che ho cercato di raccontare nel primo libro della trilogia, “Brexit Blues” (Mondadori), è stata quella di non sentirsi più benvenuti come prima, a casa qui come in Italia. Per fortuna le tendenze più nazionaliste del paese devono fare i conti con un tessuto sociale e culturale ancora robustamente democratico e solidale, come proprio la reazione ai riots della scorsa estate ha dimostrato”.
La crisi abitativa a Londra è un altro tema sempre più rilevante. Come questa situazione si collega ai problemi economici che descrivi nel tuo libro e come sta influenzando il tessuto sociale della capitale?
“Una città Londra e un Paese sempre più per ricchi. Se aggiungiamo tutto questo alla fine della libera circolazione delle persone con il resto d’Europa, con i visti di lavoro che partono da 38.700 sterline di salario minimo, con le rette universitarie raddoppiate o triplicate per gli studenti comunitari, con conseguente inevitabile tracollo delle iscrizioni, si capisce che il “reset” verso l’unione Europea promesso dal governo Starmer dovrebbe essere una delle prime emergenze del paese. Per questo speriamo che l’esecutivo abbandoni i timori e le titubanze di questi primi mesi accettando almeno, come segno iniziale di buona volontà, la Youth mobility per chi ha meno di 30 anni”.