In occasione dell’uscita del disco di Clara Green Quartet presentato al 606 Jazz Club di Chelsea il 21 Febbraio, ho incontrato il jazzista Andrea Di Biase, milanese di origine e londinese d’adozione.
Come il jazz stesso, Andrea Di Biase ha intessuto la sua storia musicale con note di innovazione e tradizione. Dal Conservatorio di Milano alla Guildhall School of Music and Drama di Londra, ha seguito un percorso eclettico, arricchendosi dell’insegnamento di maestri straordinari. Insieme al pianista Bruno Heinen, Di Biase continua a sfidare i confini del genere, creando opere che incantano e ispirano.
Poco dopo la mia nascita i miei genitori hanno scritto delle piccole canzoni per me, cosa che io ho cercato di replicare a mio modo per i miei due figli durante la pandemia
Mi potresti raccontare il tuo primo ricordo legato alla musica?
Mio padre Franco è un mandolinista e chitarrista che ha suonato con tanti gruppi storici milanesi dagli anni 70 in poi: gli Yu Kung, il Paese delle Mille Danze e altri. C’era sempre musica in casa e mia madre spesso lo accompagnava alla chitarra. Poco dopo la mia nascita hanno addirittura scritto delle piccole canzoni per me, cosa che io ho cercato di replicare a mio modo per i miei due figli durante la pandemia, scrivendo una suite di 5 brani per piano solo sul tema delle primissime manifestazioni emotive di un neonato, dal titolo Newborn Emotions.
Percorso formativo ed esordi in Italia?
Avevamo a casa tanti strumenti e, arrivato a 6 anni di età il momento di scegliere quale studiare, io testardo fin da piccolo ovviamente scelsi l’unico che non avevamo: il pianoforte. Dopo anni di studio alla Civica di Sesto San Giovanni, cominciai a suonare anche il basso elettrico per partecipare alle rock bands delle scuole superiori. Ma molto velocemente mi appassionai al Jazz, ascoltando Bill Evans e Miles Davis. Il salto al contrabbasso fu logico, ma ben presto mi resi conto che era uno strumento molto tecnico e che dovevo prenderlo sul serio. Quindi a 18 anni cominciai gli studi classici al Conservatorio di Milano. Nel frattempo cominciò anche la mia carriera nella scena Jazz milanese, con musicisti e mentori musicali quali Antonio Zambrini, Daniele Cavallanti, Filippo Monico e Tino Tracanna.
La scena Jazz di Londra era, ed è, molto più grande rispetto a quella italiana, cosa che dava spazio anche ai generi sperimentali più disparati
Come mai ti sei trasferito a Londra? Com’era la scena musicale all’epoca?
In quel periodo, a metà degli anni 2000, i giovani musicisti interessati ad un Jazz contemporaneo e sperimentale non erano tanti a Milano e molti si erano trasferiti chi a New York e chi a Parigi. Io a quel punto scelsi di provare a fare un’audizione alla Guildhall School of Music di Londra e fui preso. La scena Jazz di Londra era, ed è, molto più grande, cosa che dava spazio anche ai generi sperimentali più disparati. C’era, per così dire, una massa critica di giovani musicisti tale da dare vita ai progetti più particolari. E soprattutto c’erano molti più spazi per suonare quella musica: locali come il Vortex a Dalston per il Jazz Contemporaneo, il Café Oto per l’improvvisazione libera e le varie vene del Free Jazz, le serate più autogestite nei pub da noi giovani come il The Con a Camden e il The Oxford a Kentish town e tante altre.
Il risultato è che non vedo più giovani musicisti italiani a Londra e questo è un vero peccato: una perdita pesante per la scena artistica britannica
Hai notato differenze tra pre e post Brexit nel mercato della musica in UK?
La pandemia ha mascherato gli effetti della Brexit ma negli ultimi due anni si iniziano a percepire delle differenze significative. Sicuramente non c’è più un influsso di giovani musicisti europei, inclusi quelli italiani, che vengono a studiare o semplicemente a fare un esperienza per capire dove stabilirsi. Le stringenti regole sui visti dovute alla Brexit hanno determinato che un musicista deve essere più che convinto di stabilirsi in UK prima di intraprendere l’ardua application presso l’Home Office. Per esperienza personale credo che pochissimi giovani agli inizi della propria carriera abbiano quella sicurezza e quella disponibilità economica necessarie per fare una scelta del genere. Il risultato è che non vedo più giovani musicisti italiani a Londra e questo è un vero peccato: una perdita pesante per la scena artistica britannica.
L’anno scorso ho pubblicato il terzo disco di uno dei miei progetti più longevi: i Dugong, dal titolo Let the Good be Good
Raccontami dei tuoi recenti progetti.
L’anno scorso ho pubblicato il terzo disco di uno dei miei progetti più longevi: i Dugong. Ci siamo conosciuti a Milano ormai 15 anni fa, quando eravamo tutti agli esordi e siamo cresciuti insieme anche se ora il sassofonista Nicolò Ricci vive ad Amsterdam ed io e il batterista Riccardo Chiaberta viviamo a Londra. Quest’ultimo disco è nato durante la pandemia e si chiama “Let the Good be Good” ed è forse un incoraggiamento, anche a noi stessi, a tirarci fuori tutti da quel periodo buio e provare a fare una cosa bella. L’Art Council England ha finanziato il disco, che è stato poi presentato al London Jazz Festival 2023.
Un altro progetto a cui tengo molto è il disco del quartetto della cantante svedese Clara Green, uscito proprio settimana scorsa e presentato al 606 Jazz Club di Chelsea il 21 Febbraio. Il disco annovera il pianista Bruno Heinen e il chitarrista Harry Christelis, altri due miei sodali con cui suono da anni nei rispettivi progetti. In ultimo, sto lavorando al nuovo disco del pianista Azerbaijano Elchin Shirinov, talento di caratura mondiale, con cui suoneremo il 22 Aprile al Pizza Express Jazz Club di Dean Street a Soho, per presentare il nostro nuovo materiale.
Abbiamo deciso di fondare Honolulu Records con lo scopo primario di favorire la pubblicazione di lavori di giovani musicisti che faticavano a trovare spazio nelle case discografiche
Come ti senti nelle duplice vesti di musicista e produttore? Quali sono gli orientamenti, sia a livello artistico, musicale, e tecnico, che la sua etichetta attualmente segue e seguirà in futuro?
Entrambi i dischi di Dugong e Clara Green Quartet sono stati pubblicati dall’etichetta Honolulu Records, di cui io sono co-direttore artistico. Circa 10 anni fa, con altri musicisti milanesi, abbiamo deciso di fondare Honolulu Records con lo scopo primario di favorire la pubblicazione di lavori di giovani musicisti che faticavano a trovare spazio nell’opaco e difficile mondo delle case discografiche.
A dimostrazione della necessità di un’etichetta che offrisse un contratto trasparente e economicamente vantaggioso per i musicisti, abbiamo subito riscontrato grande interesse a pubblicare con noi, tanto da arrivare quest’anno al trentesimo disco. E’ stata un’esperienza molto formativa per tutti noi, non solo perché ci ha fatto conoscere da dentro l’industria della pubblicazione e distribuzione musicale, ma anche per averci dato modo di conoscere tanti giovani musicisti italiani e non; diventando a nostro modo un punto di snodo della scena improvvisativa e del Jazz contemporaneo delle ultime generazioni. L’etichetta ad Aprile di quest’anno si sposterà ufficialmente in UK per riflettere la dimensione ormai europea delle nostre produzioni ma, per non abbandonare le nostre radici, continueremo a prestare particolare attenzione ai giovani artisti italiani.