Regno Unito, la più alta mortalità Covid19 d’Europa

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Il Regno Unito con oltre  105.000 morti per Covid19, si colloca come il Paese con il più alto rapporto di decessi per numero di abitanti in Europa e quinto a livello mondiale, dopo Stati Uniti, Brasile, India e Messico.

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Nella più grande crisi nazionale affrontata dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo britannico si ritrova da tempo sotto accusa per la gestione della pandemia. L’OMS è cauta sulla possibile elevata mortalità della variante inglese B117, come inizialmente ventilato dal primo ministro Boris Johnson, spiegando che “i risultati sono preliminari e sono necessarie ulteriori analisi per corroborare queste conclusioni“. Il Dottor Mike Tildesley membro del gruppo SAGE, ha commentato di essere rimasto sorpreso dal fatto che il premier Johnson avesse deciso di divulgare una notizia non ancora confermata. E anche il resto della comunità scientifica internazionale sembra orientata nel non considerare la variante inglese una mutazione più letale delle altre ma solo con un indice di contagio più alto.

Da parte sua, il Sistema Sanitario Nazionale (NHS) continua a far fatica a sopportare la pressione negli  ospedali, ormai da settimane ben oltre la capienza massima, con più di terzo dei pazienti di terapia intensiva ricoverati nella sola capitale, come  riportato nell’aggiornamento in tempo reale dai dati ufficiali del governo inglese.

A Londra più di un terzo dei ricoveri in terapia intensiva

La pressione sulle unità di terapia intensiva, causata dall’alto numero di ricoveri, è altissima e per far fronte alla saturazione di posti letto, l’NHS è costretto a trasferire i pazienti in altri ospedali del Paese. Allo stremo anche il personale sanitario e gli infermieri in particolare,  che nei reparti di rianimazione da tempo affrontano l’ondata emergenziale non solo con turni massacranti ma anche gestendo tre o quattro pazienti critici alla volta, anziché  uno come di norma nei reparti di alta specializzazione.

Nel Regno Unito la notizia del superamento dei 100.000 morti, Boris Johnson ha parlato di un “dolore difficile da esprimere”, assumendosi “tutte le responsabilità” per le azioni del suo governo. Ma le affermazioni del premier di aver fatto tutto il possibile per ridurre al minimo il bilancio delle vittime sono state respinte dagli scienziati e dall’opposizione. Oltre ai problemi d’impreparazione alla pandemia, frutto dei prolungati tagli alla sanità pubblica negli anni, si contesta pesantemente l’operato del governo per una serie decisioni tardive e sbagliate.

Critiche sulla gestione pandemica nel Regno Unito

Richard Horton, capo redattore della prestigiosa rivista medica di The Lancet, sottolinea che il Regno non è risuscito a contenere la pandemia perché il governo ha “fermamente rifiutato di seguire la scienza” nonostante aver spesso affermato di agire solo su basi scientifiche. Decisioni che hanno contribuito ad una incontrollata trasmissione del virus che poi si é tradotta in un aumento di ricoveri e di morti. In primo luogo, si citano i ritardi nel mettere in atto i tre lockdown.

Alle accuse di Horton si sono aggiunte molte altre voci di scienziati e specialisti. Linda Bauld, docente di Salute Pubblica all’Università di Edimburgo, ha puntato il dito  verso l’assoluta incapacità di riconoscere e gestire il rischio di diffusione dei contagi attraverso i viaggi internazionali. Nonostante i confini siano la prima linea di difesa contro un nuovo patogeno, sono mancati controlli rigidi e monitorati. Si arrivava in città dall’aeroporto senza neanche essere testati per il virus.

Forti critiche sono state mosse anche nella gestione di  test e  tracciamento, impedendo di fatto al governo di capire chi avesse contratto il virus e dove si stesse propagando.  Altre denunce sono piovute sulla scarsa capacità applicare e far rispettare le misure anti contagio negli ambienti di lavoro. È eclatante lo scandalo denunciato dalle Unioni Sindacali in relazione all’Agenzia della Motorizzazione (DVLA) a Swansea, in Galles, dove si sono verificati più di 500 casi tra il personale, dovuti al sovraffollamento negli uffici e quindi l’impossibilità nell’osservare il distanziamento sociali.

L’epidemiologo Micheal Marmot evidenzia, in uno studio sulle conseguenze sociali della pandemia, l’aumento delle diseguaglianze sull’accesso ai servizi e alla sanità e quindi un rallentamento delle aspettative di vita tra chi si trova nelle fasce sociali più basse.  Diseguaglianze, sottolinea il rapporto, peggiorate da una stasi dei miglioramenti del sistema sanitario durante gli anni e da un’assenza di considerazione sulle disparità nella politica sociale del Governo.

Operatori sanitari ancora scarsamente protetti

Inoltre, molti medici e paramedici hanno continuato a denunciare, fin dall’inizio della pandemia, la mancanza di dispositivi di protezione adeguati, dei quali avevamo già raccontato prima dell’estate in un nostro reportage.

Ad oggi, sono morti per Covid più di 850 operatori sanitari e sociali. Un numero che si sarebbe potuto evitare se ci fosse stato un sistema di test e tracciamento più efficace e protezioni individuali migliori, come sostiene il Nurse United UK, un’associazione che lotta per i diritti degli infermieri nel Regno Unito. Gli operatori sanitari e sociali continuano quindi a sollecitare il Governo a fornire protezioni di più alto livello, soprattutto ora con la nuova variante.

Nel frattempo, sono innumerevoli gli arresti per assembramenti che si registrano nonostante i lockdown. Gli appelli delle famiglie delle vittime riportano alla stampa le loro storie strazianti tentando di sensibilizzare l’opinione pubblica, una parte della quale ancora refrattaria.

Ma tra un mare di dolore, c’è una nota positiva: il Regno Unito sta portando avanti una delle maggiori campagne vaccinali a livello globale. Sono  già 7,5 milioni i britannici che ad oggi hanno già ricevuto la prima dose del vaccino.

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